Paolo Renier
- doge 1779-1789
Paolo Renier fu l'ultimo dei
notevoli dogi e una delle
personalità più brillanti del settecento veneziano. Nacque il 21 Novembre 1710
da Andrea (di Daniele di Antonio) e da Elisabetta dei Morosini di S. Tomà,
quintogenito di dieci fratelli. Da fanciullo si dedicò con impegno a studi
approfonditi, più di quanto fosse consueto per i giovani patrizi del
tempo, raggiungendo una vasta erudizione nella storia, nella letteratura,
nelle lingue latina e greca, quest'ultima parlata correntemente (tradusse Platone
in veneziano). Dinamico, ambizioso, rapidissimo nell'afferrare le
situazioni, aperto a tutte le idee (si iscrisse alla società dei "Liberi
Muratori"), fu al centro di ogni ambiente; sapeva
affrontare e conquistare tutti, dal popolano all'imperatrice Maria Teresa,
dai subdoli ministri turchi al Maggior Consiglio nelle più burrascose
sedute. Goethe fissò nei suoi appunti l'impressione di maestosità che ne
ebbe al solo vederlo passare; i patrizi più in vista si onoravano della
sua amicizia; per lungo tempo fu elemento determinante negli affari di
stato; curò in alto grado, negli incarichi svolti all'estero, il prestigio
suo e della Repubblica. Di lui fu scritto: <... era bello della persona,
nobile ed ilare della faccia, vivace degli occhi, facondo del labbro,
pronto alle risposte, faceto con decoro, filosofo, politico>. Prende moglie
nel 1733 sposando
Giustina Donà dalle Rose (vedi ritratto sopra, museo di Cà Rezzonico -
Venezia), figlia di Leonardo e di Marietta Contarini. Da Giustina ha tre
figli: Andrea, che sposerà Cecilia Manin, sorella dell'ultimo Doge,
Leonardo e Lisa (entrambi morti in tenera età). La sua carriera fu
fortunata fin da giovanissimo, quando, il giorno di S. Barbara, viene
estratto a sorte per l'ingresso anticipato al Maggior Consiglio. Subito
cerca di mettersi in luce, tanto che appena trentenne è nominato Savio
alla Scrittura, cioè ministro delle forze armate. La sua esuberanza ancora
acerba, si manifesta negli attriti che insorgono con i generali
dell'esercito, perchè egli è risoluto a svolgere le sue funzioni. Nel 1741
ispeziona i presidi di terraferma, e denuncia, facendoli punire e radiare,
molti ufficiali. Si applica quindi intensamente alla vita politica,
ricoprendo le cariche di senatore, Savio Grande, Inquisitore sopra i dazi,
Correttore sopra la Promissione Ducale, Riformatore dello Studio di Padova
(in pratica ministro per l'Istruzione), Savio alla mercanzia e di
terraferma, Revisore alle entrate, Provveditore alla sanità. In
particolare si dedica alle trattative con la Santa Sede per la definizione
delle prerogative ecclesiastiche; dopo l'incoronazione di papa Rezzonico,
alla quale assiste come inviato della Repubblica, la spinosa questione
trova un accomodamento sulla base delle sue proposte. Nel giugno 1751
muore la moglie Giustina
che viene sepolta nella chiesa di Sant'Antonio
a Padova (sposerà successivamente la greca Margherita Dalmet, donna di notevole
bellezza, da cui avrà un figlio: Giuseppe). Nel 1761 scoppia la cosidetta
"congiura Querini": un gruppo di patrizi innovatori promuove una tenace
azione contro gli inquisitori di Stato. Li guidano Angelo Querini e Paolo
Renier, legati fra loro da una profonda amicizia. Alla fine il primo viene
arrestato, il secondo continua a battersi contro la maggioranza
conservatrice, a denunciare i mali che affliggono la Repubblica; è in tale
occasione che egli tiene la parola per ben cinque ore davanti al Maggior
Consiglio. Il Renier difende con grande foga i suoi ideali di
rinnovamento, ma non è ancora passato attraverso l'esperienza diplomatica,
la quale gli farà capire quanto sia precario l'equilibrio della Repubblica
in sede internazionale. Questa fase inizia nel 1764 quando viene nominato
ambasciatore a Vienna, ed è utilissima per affinare le sue doti, allargare
le sue cognizioni. I quattro anni passati a Vienna costituiscono un
incondizionato successo: egli nulla trascura per far risplendere il decoro
della Repubblica, per primeggiare con la sua cultura. I risultati non
mancano: l'imperatrice Maria Teresa ed il figlio Giuseppe II lo ammettono
alle loro private conversazioni, lo considerano un amico personale, gli
conferiscono un titolo cavalleresco. Da questo punto di osservazione egli
ha la possibilità di riferire il quadro completo della situazione europea,
perchè ha modo di rendersi conto quanto siano fragili la Repubblica e le
sue forze armate nei confronti dei colossi europei. Ha origine così la
nutrita serie di ben 229 dispacci, che sono altrettanti appelli, sempre
più angosciati rivolti al Senato per scuoterlo dalla sua inerzia, per
incitarlo a rafforzare l'apparato militare contro i prossimi probabili
sconvolgimenti. Egli abbozza a tal fine un'alleanza con l'Austria, ma non
viene ascoltato, ed i suoi scritti, nonchè un discorso di due ore e mezzo
rivolto al Senato, rimangono solo come documenti di alta e previdente
politica non sorretta da un governo capace di attuarla. Il Casanova,
durante l'esilio a Vienna, cercò la sua protezione. Scrive nelle sue
Memorie: <Polo Renier, uomo colto e intelligente, mi stimava, ma il mio
affare con gli inquisitori non gli consentiva di ricevermi>. In seguito il
Casanova dedicò al Renier, dopo l'elezione a doge, un suo libro su
Voltaire. Nel 1769 è nominato Bailo di Costantinopoli. Il Bailo era un
ambasciatore dotato di una speciale posizione di preminenza, e per
tradizione veniva considerato dallo stesso governo turco come un
consigliere del Visir. Qui l'ambiente è completamente diverso , saturo di
drammaticità per le recenti sconfitte subite da parte della Russia: vi
regnano gli intrighi tipici delle corte orientali alle quali si aggiungono
le manovre delle grandi potenze occidentali per accaparrarsi posizioni di
forza a fini commerciali. Le qualità del Renier sono le più adatte per
curare gli interessi di Venezia, e 118 messaggi dimostrano la solerzia con
la quale assolve il delicato incarico; egli ritorna ad auspicare
un'alleanza di Venezia con l'Austria contro i turchi, e rapporti
commerciali più stretti con la Russia. I risultati concreti non mancano,
ed il più vistoso consiste nella assegnazione, da parte del governo turco
alla marineria veneziana, dell'appalto dei rifornimenti di Costantinopoli,
con grande vantaggio per la languente attività commerciale della
Repubblica. Al suo rientro a Venezia nel 1773 il Renier è già avanti negli
anni, eppure si getta nuovamente nella politica con giovanile dinamismo
puntando questa volta alla carica più ambita, il dogado, che egli consegue
il 14 gennaio 1779. La vita politica veneziana attraversa un periodo
travagliato. ed al nuovo doge si presenta subito una prova assai pesante.
Si è ricostituita una corrente di innovatori che fanno capo a Carlo
Contarini ed a Giorgio Pisani, e le discordie interne raggiungono
intensità mai conosciute. Molti e complessi sono i motivi dei disordini:
idealismi, interessi, ambizioni, insoddisfazioni, demagogia, paura del
nuovo. Non è affatto un dissenso fra patriziato e popolo: gli innovatori
non propongono di mutare il sistema aristocratico, ma solo di eliminare
gli abusi, di migliorare il sistema. Però il loro modo di procedere, la
loro irruenza, è tale, da ingenerare nei patrizi, ed anche nel popolo, in
larga parte inquadrato in corporazioni monopolistiche, uno stato di
profonda diffidenza, il timore che le istituzioni repubblicane, così ben
congegnate attraverso un lavoro secolare, avessero a sfasciarsi del tutto.
Le situazioni erano così cristallizzate che ognuno temeva un danno da
eventuali sconvolgimenti. Per mesi continuarono violente le discussioni,
fino a quando il Doge credette suo dovere intervenire, e pro fine ad una
situazione sempre più pericolosa. Egli prima redasse uno schema di
risoluzione, poi perorò presso il maggior Consiglio la causa della
intangibilità delle istituzioni, della necessità di sacrificare
aspirazioni particolari al bene comune, ed ottenne un pieno successo.
molti lo accusarono, sia allora sia in seguito, di aver mutato parere
rispetto ai suoi precedenti liberali. Certo questo atteggiamento deve
essere stato doloroso per il Doge, ma egli era ormai al di sopra delle
fazioni, e l'esperienza nel frattempo maturata all'estero lo ammoniva
chiaramente che per sopravvivere accanto a potenze tanto più grandi, alla
Repubblica rimaneva solo un punto di forza: la saldezza delle istituzioni,
la concordia dei suoi governanti. Egli cioè vedeva le cose non solo
dall'alto, ma dall'esterno, e questo punto di vista, che collocava nelle
giuste proporzioni le piccole diatribe interne, fece presa sul Maggior
Consiglio, fu decisivo nel risolvere la crisi: gli innovatori vennero
messi in minoranza, e furono arrestati gli avvocati Pisani e Contarini, i
quali furono confinati rispettivamente a Verona e a Cattaro nel maggio del
1780. Altri avvenimenti notevoli che illustrarono il suo dogado furono le
vittorie di Angelo Emo contro i barbareschi a Tunisi, le fastose visite di
Pio VI e dei principi ereditari di Russia, il riordino dei codici, riforme
nell'istruzione pubblica, provvedimenti contro il lusso, il completamento
dei murazzi. Una lapide a Pellestrina ricorda il Doge che concluse questa
opera colossale: PRINCIPATUS PAULI RAYNERII - INCLITI DUCIS - ANNO SALUTIS
MDCCLXXIX - AQUARUM CURATORES - FACIUNDUM CURARUNT. Morì il 13 febbraio
1789 dopo 37 giorni di malattia. Il Doge non si turbò affatto al
sopravvenire del male e disse: <La vita è un dono del creatore, che quando
gli pare se la riprende. Ma come la si riceve immacolata con il battesimo
così si deve rendergliela. Chiamatemi perciò il confessore per purgarmi
dei peccati e perchè confortato dall'Eucarestia possa accingermi al
viaggio dell'Eternità>. Lo commemorò l'abate Emanuele De Azevedo nei
funerali solenni, che ebbero luogo ai S.S. Giovanni e Paolo, e costarono
la ingente somma di lire 68.267. Durante il discorso il De Azevedo
suffragò le antichissime origini della famiglia, dalmate e prima ancora
perugine: < Amadori Rainerius, qui Spada dicebatur, filius Marchionis
Rainerii Perusini, Ragusium adiit, ubit inter nobilis adscriptus fuit; se
Venetias transtulit Rainerius Amadori filius, et Nicolaus Rainerii filius
inter optimates adnotatus est anno 1122. Vide strumentum membranaceum
saeculi XI in archivio Cathedrali Eugubii, et vetustissimam tabulam
genealogicam Civitatis Rainerii in Agro Perusino, et aliam initio elapsi
saeculi in ipso Raineriorum palatio Perusiae asservatam>. Venne portato in
una grande barca scoperta coll'accompagnamento del clero di S. Marco ed al
chiaroscuro di numerose grosse torce alla chiesa di S. Nicolò
dei Tolentini, dove fu sepolto nella tomba di famiglia, a destra,
contrassegnata dallo stemma.
Spesso, da parte di chi
scrive del Renier, viene riportata una diceria, quella di aver corrotto
parte dei componenti del Maggior Consiglio in occasione della sua
elezione. L'invidia fu certamente all'origine di queste voci; si consideri
che con la sua forte personalità il Renier si era creato inevitabilmente
molti nemici, tanto che alla vigilia delle votazioni venne scoperto
addirittura un attentato alla sua vita. Non si può escludere che egli, in
occasione della elezione, abbia fatto a posteriori delle elargizioni ai <barnabotti>
(come venivano chiamati i nobili in disagiate condizioni). Il Molmenti ed
il Musatti affermano del resto che queste elargizioni da parte del neo
eletto erano divenute una consuetudine. Ma chi conosce la complicatissima
procedura dell'elezione a doge, costituita da reiterate elezioni di
gruppi, successive eliminazioni a sorte, e nuove elezioni, nonchè i rigidi
regolamenti del Maggior Consiglio, può escludere in via assoluta che si
potesse escogitare un sistema di irregolarità preventiva, a meno di non
corrompere l'intera assemblea, composta allora da 967 membri. Ben più
sostanzioso ed attendibile è il giudizio che del Doge, quale statista,
politico, veneziano, diedero studiosi indiscussi. Nicolò Tommaseo: <Paolo
Renier, leggitore di Platone e Aristotele, al quale nel 1780 dedicò
Gaspare Gozzi il suo "Cebete", di sangue dalmatico, ultimo doge degno
degli antichi, che se viveva qualche anno ancora, avrebbe meglio adoperato
il fedele ardimento dei dalmati, avrebbe salva la Repubblica, e l'Italia
forse>. Girolamo Dandolo: <..non così sarebbe avvenuto (la caduta
ingloriosa della Repubblica) se Paolo Renier avesse ancora occupato il
seggio ducale>. Pompeo Molmenti: <.. Paolo Renier, oratore pieno di
dignità, di convincimento, di affetto>. Giuseppe Cappelletti: <.. egli era
adorno di vasta erudizione, particolarmente nelle lettere greche e latine,
era grande politico,era parlatore energico ed animato>. Gianjacopo
Fontana: <..di acutissimo ingegno, di meravigliosa facondia, fu orgoglio e
vanto di Venezia, aveva forza virile e ferrea costanza, sostenuta nella
sua matura esperienza e nella perspicacia dei suoi giudizi, dal
presentimento dei futuri destini della patria; principe, lo diremmo
insomma, per le più cospicue doti, inarrivabile>.
Dipinto di Gabriel Bella, celebra la visita di Papa Pio VI a Venezia il 19
Maggio 1782, alla presenza del Doge Renier
Integrazione a quanto sopra ricevuta dal
Dott. Alessandro Renier, diretto discendente del doge,
Marzo 2007
Un avvenimento eccezionale per quei tempi fu la visita del Papa Pio VI,
di passaggio a Venezia nel maggio del 1782, dopo la sua missione a
Vienna. Era dal tempo del famoso incontro tra Papa Alessandro III e l'
imperatore Federico Barbarossa (1177) che un Papa non visitava Venezia.
Accolto con grande pompa, alloggiato al convento dei SS. Giovanni e
Paolo, il Pontefice benedisse la folla accanto al Doge. I due alti
personaggi ebbero un lungo colloquio privato, sul quale nulla si sa; ma
poiché il Papa era andato a Vienna proprio per parlare con Giuseppe II
del quale erano note le idee
liberali, ed il Doge conosceva bene la corte di Vienna e lo stesso
imperatore, è facile dedurne che i due abbiano esaminato a fondo la
situazione politica ed europea quale si profilava alla luce delle idee
rivoluzionarie che cominciavano a serpeggiare. Cinque celebri quadri di
Francesco Guardi celebrano questo avvenimento.
In quello stesso anno vennero a far visita a Venezia il granduca di
Mosca Paolo Petrowitz, futuro Zar di Russia Paolo II, e sua moglie;
viaggiavano in incognita sotto il nome di Conti del Nord. Vennero
accolti con una regata in Canal Grande, feste e luminarie; per
l'occasione fu organizzato un
combattimento di tori in piazzetta San Marco. La popolazione
partecipava intensamente a questi festeggiamenti, tanto che il granduca
disse: "Voila l'effet du sage gouvernement de la République. Ce peuple
est une famille". L'evento venne descritto da Francesco Guardi con sei
noti dipinti.
Nel 1784 venne a Venezia il re di Svezia Gustavo III, ed una grande
festa venne organizzata dai Pisani nel loro palazzo a Santo Stefano.
Anche l'imperatore d'Austria Giuseppe II in tale periodo fece due
visite a Venezia.
Una vicenda che illumina in modo più incisivo il Dogado è la spedizione
contro il Bey di Tunisi che nel 1784, dopo una serie di contrasti,
aveva dichiarato guerra a Venezia. Sotto il comando di Angelo Emo,
l'ultimo grande Comandante da mar, brillò per l'ultima volta la gloria
della Serenissima.
Il 21 giugno 1784, salutata dalla popolazione posta sulla riva degli
Schiavoni, salpava per l'ultima volta la flotta da Venezia; era
costituita da venticinque navi, fra cui due vascelli di primo rango e
quattordici fregate grosse, fra cui la nave ammiraglia "Fama", appena
ultimata nei cantieri dell'Arsenale. Nel corso di un triennio
(1784-1786) la flotta veneziana tenne sotto controllo le coste algerine
e tunisine e bloccò o bombardò i relativi porti; venne utilizzato tra
l'altro un ingegnoso sistema di piattaforme galleggianti armate con
mortai, che consentiva di navigare nei bassi
fondali; tale impresa rimase nella storia militare. Dopo lungo
guerreggiare e trattare si giunse ad una pace che restituì sicurezza
sui mari, con sollievo e pubblici ringraziamenti, anche da parte della
Francia e della Russia.
Rivolgendoci alle vicende interne, è da ricordare quella che più di
altre mette in luce il prestigio del quale godeva il Doge, che nel 1780
riuscì a risolvere una situazione assai critica per le istituzioni. La
vita politica veneziana attraversava un periodo travagliato, ed al
nuovo Doge si presentò subito una prova assai pesante. Si tratta di
quell'aspro scontro di idee e di uomini che va sotto il nome di
congiura Contarini-Pisani, due patrizi di elevato ingegno e profonda
cultura giuridica che, avanzando forti proteste per l'andamento
dell'economia, per la situazione del popolo, per il farraginoso
andamento delle istituzioni, provocarono accesi dibattiti nel Maggior
Consiglio ed un periodo di grande
turbamento nella politica e nei rapporti personali fra i patrizi;
aspetto questo impalpabile, ma che aveva un grande peso per il buon
funzionamento degli organi collegiali sui quali la Repubblica si
reggeva. Non ci furono turbamenti tra patrizi e popolo, perché, pur
facendosi portatore di idee democratiche, Contarini concepiva riforme
all' interno del sistema aristocratico.
Non è il caso di narrare i particolari, ma è da rilevare la passione
politica che ancora animava alcuni, perlomeno, fra i patrizi, la loro
profonda conoscenza della intricata e antica legislazione veneziana e
la
loro oratoria, che li faceva parlare per ore intere. Gli scontri
durarono a lungo, quasi cinque mesi, ed erano rimaste in votazione due
"parti", oggi si direbbero mozioni; il momento era delicato e
c'era il pericolo che il corpo patrizio si spaccasse in due, con gravi
conseguenze sull'opinione pubblica, indipendentemente dall'accettazione
di una mozione o dell'altra.
A questo punto il Doge prese la parola e parlò, ascoltato in piedi
dagli 843 patrizi presenti, proponendo una sua mozione che annullava
tutte le altre. Impiegò tutta la sua arte oratoria un po' rampognando i
più riottosi, un po' adulando il corpo patrizio, un po' adombrando i
pericoli che minacciavano la Repubblica, facendo leva su ragionamenti
ma anche sui sentimenti dei patrizi.
Il suo discorso, un capolavoro oratorio e di diplomazia, è riportato
quasi integralmente su importanti testi di storia, come il Romanin e il
Cappelletti. Ne riporto alcuni brani: "Oggi tutti i monarchi ci
osservano, aspettano novità, sempre pronti a trarre vantaggio da queste
nostre difficoltà, traendone conseguenze che terrorizzano l'animo
nostro. chiamo Dio a testimonio: mi sono trovato a Vienna al tempo dei
torbidi polacchi, ed ho sentito ripetere: i signori polacchi non hanno
giudizio, contendono tra di loro. Li aggiusteremo noi, ci divideremo la
preda.". Continuò con una frase che viene riportata spesso nei testi di
storia veneziana: "Se c'è stato che abbia bisogno di concordia, siamo
noi, che non
abbiamo forze né terrestri, né marittime, non alleanze, viviamo a
sorte, per accidente, e viviamo con la sola idea della prudenza della
Repubblica. Questa è la nostra forza.". E' una frase coraggiosa che
descrive bene la situazione, ma può apparire rinunciataria,
eccessivamente pessimista e non delinea bene il personaggio, che non
era affatto debole e rinunciatario, per cui richiede una spiegazione.
Bisogna tener presente che era pronunciata nel segreto del Palazzo
Ducale, rivolta solo ai patrizi, con il chiaro intento di spronarli, a
costo di spaventarli. Era insomma strumentale, ma fu molto efficace,
raggiunse lo scopo di rappacificare il Maggior Consiglio e sedare i
contrasti. Riferisce il Cappelletti: "Queste parole del Doge produssero
tale effetto di commozione e di applauso, che la proposizione fu
accettata con pienezza di voti". La Repubblica poté continuare il suo
cammino. Questa vicenda dimostra quanto grande fosse la forza di
persuasione del Doge, la sua personalità, la sua oratoria. Egli riuscì,
con diplomazia ma anche con energia, a dominare un'assemblea di un
migliaio di patrizi. Se
il contrasto fosse continuato, la Repubblica poteva sfasciarsi. E' da
tenere presente che i regolamenti non permettevano al Doge di
intromettersi troppo nelle decisioni da prendere; quando un Doge tentò
di farlo, un senatore lo invitò bruscamente "a starsene nella sua
sedia, a godere dell'onore datogli". Comunque a seguito di queste
discussioni, per quanto aspre, vennero adottate decisioni importanti:
il risanamento dell'Arsenale, il riordino dei codici, il contenimento
del lusso. Anche nei confronti
dell'estero, vennero ripresi rapporti con l'Olanda, i Paesi Baltici, la
Russia di Caterina, iniziati da Paolo Renier quando era Bailo; nel 1786
ci furono contatti anche con gli Stati Uniti d'America; giunsero
infatti a Venezia John Adams, Benjamin Franklin e Thomas Jefferson,
padri fondatori
del nuovo governo degli Stati Uniti d'America, che la Repubblica aveva
riconosciuto per prima, per studiare le leggi dell'ordinamento
veneziano (la Costituzione Americana fu completata a Philadelphia nel
settembre del 1787). Tuttavia le proposte di un trattato commerciale e
di amicizia fra le due
repubbliche non ebbero seguito. Altra frase di rilievo del suo lungo
intervento fu: "i nostri sudditi vanno trattati come compagni. Sapete
come si faceva una volta? Si andava nelle nostre terre e si riceveva
tutti in forma solenne. Perché i principi che non hanno forza devono
riporre la loro sicurezza nell'amore dei sudditi. Questo è il vero bene
del patrizio. Dio non ha fatto più bel Paese di
questo, bisogna metterlo in attività, bisogna avere rette intenzioni.
Bisogna amare la Patria, come la amo io. Questo è il bene, questa è la
grandezza dei governanti". Parole che sono illuminanti sul concetto che
i patrizi avevano del potere: deve essere esercitato con fermezza ma
anche con
umanità, utilizzando il fasto per colpire l'immaginazione, mantenendo
un rapporto diretto ed aperto con il popolo. E' una lezione di saggia
politica che, se applicata altrove, avrebbe forse
risparmiato qualche rivoluzione, ed è anche un esempio della natura
socievole del Doge, che gli faceva cogliere gli aspetti delle varie
situazioni e risultare simpatico quando era opportuno. Questo
intervento costituì comunque un momento delicato per il Doge, e gli
costò sacrificio, perché diede l' impressione di schierarsi con l'ala
conservatrice, tradendo le sue idee liberaleggianti sostenute in
gioventù; anche l'amico Querini l'abbandonò e, per dispetto, sfregiò il
busto che lui stesso aveva
commissionato ad Antonio Canova; in seguito venne restaurato. Ma
l'altissima carica che ora ricopriva gli imponeva di anteporre
l'interesse supremo della Repubblica; la sua esperienza maturata
all'estero,
specialmente a Vienna, gli presentava chiaramente i pericoli che essa
correva, aveva intuito che una svolta innovatrice sarebbe stata molto
malvista dai monarchi europei, una scusa per intervenire.
Molto si discusse in seguito se una svolta liberale avrebbe potuto
giovare a Venezia.
In quel momento certamente no, perché i governi europei, non certo
favorevoli alle repubbliche, avrebbero preso il pretesto per
intervenire. Il Doge lo aveva intuito e lo aveva fatto capire nel suo
discorso; e in seguito il ciclone napoleonico non avrebbe certo
risparmiato per così poco
la fragile Repubblica. E' chiaro che il timore del Doge era rivolto
all'esterno, da lì veniva il pericolo, anche se non poteva immaginare
che invece che da oriente, sarebbe venuto da occidente, con una
violenza rivoluzionaria che avrebbe travolto non solo la fragile
Repubblica ma l'intera Europa.
Da menzionare tra gli avvenimenti del suo Dogado il completamento dei
murazzi, iniziato 38 anni prima e ultimato nel 1782, gigantesca diga di
macigni in pietra d'Istria larga 14 metri e lunga circa 13 chilometri,
a difesa dei litorali di Pellestrina e di Sottomarina; una lapide a
Pellestrina così ricorda quest'opera ciclopica per quei tempi:
PRINCIPATUS PAULI RAYNERII - INCLITI - DUCIS - ANNO SALUTIS MDCCLXXIX -
AQUARUM CURATORES - FACIUNDUM CURARUNT.
Gli anni del suo Dogado costituirono l'ultimo periodo sereno e
brillante per Venezia, che poteva contare ancora sul suo prestigio al
quale il Doge certamente contribuì. Cito l'impressione di maestosità
che ne ricevette, al solo vederlo passare, uno straniero non certo
sprovveduto, il Goethe, quando, durante il suo soggiorno a Venezia nel
settembre del 1786, assistette alla visita che il Doge fece alla chiesa
di Santa Giustina per ringraziare la Santa per la vittoria di Lepanto,
come era tradizione da due secoli. Scrisse Goethe nel suo diario:
"spettacolo unico! Quella processione ricchissima, quelle scene
straordinarie, dove risplendono le tuniche dei magistrati, i cinquanta
nobili rivestiti di tuniche violette che accompagnano il Doge con una
signorilità meravigliosa; il Doge stesso, benché vecchio, con un
aspetto di grande imponenza; lo direste il nonno di questa generazione,
tanta è in lui l'affabilità e la gentilezza; per me è stato uno
spettacolo davvero indimenticabile". Da questo brano si può dedurre che
il fasto ha sempre una forte carica di suggestione; la Repubblica
sapeva sfruttarlo ed il Doge era il più adatto a rappresentarla.
L' inizio della carriera
Ho cominciato con il Dogado, cioè dall'ultima parte della vita del
personaggio. Certamente la più nota e rilevante sotto il profilo
storico, ma forse la meno significativa per conoscere la sua
personalità, perché la carica di Doge lo costringeva entro limiti ben
precisi. Il vero Renier, nella sua vivacità ed esuberanza, lo vediamo
nella prima parte, ricchissima di eventi, che riprendo a tratteggiare.
La famiglia non era tra le più antiche del patriziato, essendo stata
ammessa al Maggior Consiglio nel 1381, per benemerenze acquisite nella
guerra di Chioggia (era stata ammessa saltuariamente anche in
precedenza). Nato il 21 novembre 1710 nel palazzo Renier a San Stae,
vivacissimo fin da fanciullo, fa impazzire la madre Elisabetta
Morosini, come racconta una gustosa poesia di Francesco Gritti, che lo
definisce "un Atila in erba belo e bon". Si applica con impegno a studi
umanistici più severi di quanto
usassero i patrizi del tempo, giungendo a parlare correntemente il
greco ed il latino; tradusse Omero, Pindaro e Platone in veneziano.
Nato fortunato dunque, ma anche questo ci vuole nella vita, fortunato
anche quando "tocò la bala d'oro", cioè fu ammesso per sorteggio al
Maggior Consiglio prima
dell'età normale. Nel 1733 sposò Giustina Donà delle Rose, figlia di
Leonardo e di una
Contarini. Da Giustina ebbe tre figli: Andrea, che sposerà Cecilia
Manin (sorella dell' ultimo Doge) Leonardo e Lisa. Fin da giovanissimo
si dedicò alla vita politica nella quale, avvalendosi della sua celebre
oratoria, fece rapida carriera. Non c'è stato avvenimento, per un arco
di quasi sessant'anni di vita veneziana, nel quale egli non abbia avuto
parte, spesso in posizione di primo piano. Sempre
presente, puntuale, spesso impetuoso: una volta parlò al Maggior
Consiglio per cinque ore di seguito, finché quasi svenne. Frequentò
tutti gli ambienti, era aperto alle nuove idee pur senza troppo
impegnarsi, era amico di tutti, dall'uomo del popolo all'imperatrice
Maria Teresa; percorse rapidamente tutti i gradini che la burocrazia
veneziana offriva ai patrizi di successo. Nel 1741, appena trentenne, è
Savio alla Scrittura; in seguito ricopre le cariche di Savio agli
Ordini, Revisore alle entrate, Senatore, Provveditore alla sanità,
Riformatore allo Studio di Padova, Correttore alla promissione ducale,
Cavaliere, Savio grande, Consigliere di Santa Croce, ambasciatore
straordinario a Roma in occasione dell'elezione del Papa Rezzonico,
ambasciatore alla corte di Vienna, Bailo a Costantinopoli, Inquisitore,
infine Doge.
Qui sottolineo due importanti vicende politiche che lo coinvolsero nel
primo periodo: la questione Aquileiense, e le controversie con la Santa
Sede. Oggi può sembrare di scarsa importanza la controversia tra
Venezia, l'Austria e Roma per decidere se il Patriarca di Aquileia
potesse continuare
ad avere giurisdizione sui territori di Stati diversi, Venezia e
l'Austria. Ma solo immedesimandosi nell'atmosfera del tempo si può
comprendere che erano coinvolti profondi risvolti di politica, di
religione, di diritto feudale. Del resto si disse che questa vicenda fu
una delle tante fasi del perenne contrasto fra il mondo latino ed il
mondo germanico. In particolare si dedica alle trattative con la Santa
Sede per la definizione delle prerogative ecclesiastiche; dopo
l'incoronazione del veneziano Papa Clemente XIII, Carlo Rezzonico
(1758), alla quale assiste come inviato della Repubblica, la spinosa
questione trova un accomodamento sulla base delle sue proposte. Polo
Renier fu tenace difensore dei diritti della Repubblica, cioè si allineò
con gli anti-papisti, come in altro caso analogo successivo. Fu
talvolta tra i perdenti, ma con i suoi lunghissimi discorsi al Senato,
ora suadenti ora impetuosi, e gli altrettanto lunghi colloqui riservati,
rimaneva sempre al centro dell' attenzione, ed aumentava la sua fama.
Era dotato di grande capacità di manovra per cui, pur dopo aspre
contese, il suo intuito gli suggeriva soluzioni onorevoli ed
accettabili. Spesso non gli furono risparmiate critiche ed accuse da
parte dei patrizi intransigenti ed insensibili all' ambiente che si
evolveva; alcuni lo definirono orgoglioso, autoritario e battagliero,
altri invece annoverarono questa caratteristica tra le sue doti. La
citata Marcellino scrive: "dinanzi al nuovo si ritrae unicamente chi non
ha fede in sé e forza di
rinnovarsi, mentre il penultimo Doge di Venezia ne aveva: ne aveva per
lo meno nella quantità che sarebbe stata necessaria e sufficiente alla
Repubblica per morire con dignità, in piedi e lottando, sopraffatta da
avvenimenti più grandi di lei.".
Un'altra tappa importante della sua carriera fu nel 1761 la cosiddetta
congiura Querini. Angelo Querini, spirito acuto, vivace, si era messo in
contrasto con gli Inquisitori di Stato, cercando di applicare, quale
Avogador de Comun, idee riformiste, ma in modo originale: essendo
profondo
conoscitore delle antiche e complesse leggi della Repubblica, cercava
di farle nuovamente applicare in quanto più liberali. Si proponeva cioè
di opporsi o mitigare i poteri sempre più autoritari che
qualche organismo aveva assunto: ad esempio il Consiglio dei Dieci e
gli Inquisitori, a scapito di altri, ad esempio l'Avogaria, che in
origine era più rappresentativa delle classi popolari. Era in sostanza
un' innovazione che puntava a tornare all'antico, ed è da rimarcare che
il popolo, in questo caso come in altri, rimaneva sostanzialmente
indifferente a queste manovre che avvenivano tra i patrizi: per lui la
Repubblica andava bene così.
E' noto come la costituzione veneziana si trasformava lentamente, in
forma pragmatica, aggiungendo secondo le esigenze nuovi organi e nuove
funzioni. Il sistema, divenuto con il tempo molto complesso, era utile
per creare equilibrio tra i vari organismi statali e rotazione di
persone, ma creava anche possibilità di frizione. Paolo Renier, sempre
presente nella vita politica, non poteva non partecipare a questa
vicenda; si schiera con Querini che era suo amico e del quale
condivideva le idee liberaleggianti,
anche a rischio di mettersi in contrasto con il potente Consiglio dei
X; in tale occasione egli tiene la parola per ben cinque ore davanti al
Maggior Consiglio; difende con grande foga i suoi ideali di
rinnovamento, ma non è ancora passato attraverso l'esperienza
diplomatica, la quale gli farà capire
quanto sia precario l'equilibrio della Repubblica in sede
internazionale. La conclusione è nota, Angelo Querini viene esiliato, e
Polo riesce a cavarsela e continua a battersi contro la maggioranza
conservatrice, a denunciare i mali che affliggono la Repubblica. Anche
questa volta è tra i perdenti ma ciò non significa che egli non aumenti
la sua fama e la sua autorità. Riferisce una cronaca: ".sia fortuna o
malia che lo difenda, ognora esce illeso dai volontari perigli".
Cioè si caccia nei pasticci, ma riesce sempre a cavarsela; aumenta però
nei suoi colleghi la diffidenza per il suo eccessivo attivismo, cresce
l'invidia: fatto sta che, forse per levarselo d' attorno, nel 1764 viene
nominato ambasciatore a Vienna, carica molto delicata e ambita. Da
notare che, accanto alla sua intensa attività politica, egli deve curare
il patrimonio della famiglia, le case di Venezia, le valli lagunari, i
poderi e le ville in campagna, essendo il maggiore dei fratelli.
Nell'archivio di famiglia, che inizia con il '300, c'è un documento
firmato da tutti i fratelli, con il quale egli, dovendo partire per
Vienna, delega uno di loro ad amministrare i beni della famiglia.
Ambasciatore a Vienna.
L'uscita dalle ristrette beghe lagunari costituisce per Polo
un'improvvisa apertura verso orizzonti politici e culturali di maggiore
respiro, ed egli vi si immerge con rinnovato slancio. Comincia qui la
svolta concettuale che poi gli attirerà l'accusa di aver tradito gli
ideali riformisti. Il fatto è che a Vienna si rende conto di quanto
potenti siano gli stati europei e quanto modesta Venezia sul piano
militare. In particolare gli fa impressione l'esercito austriaco. Nei
229 dispacci che manda al Senato c'è
tutta la politica europea di quegli anni, e spesso affiora il timore,
che per lui fu un incubo per tutta la vita, sulle possibilità di
sopravvivenza della Repubblica Veneta; sono altrettanti appelli, sempre
più angosciati, rivolti al Senato per scuoterlo dalla sua inerzia. Nello
stile classicheggiante, nel suo tono autorevole e spesso altezzoso,
tratta i più disparati argomenti, c'è la conferma di quella capacità di
comprendere le situazioni più complesse, quell'intuito da tutti
riconosciuto quale la sua più alta qualità, come politico e come uomo.
Egli intuisce la crisi in atto, la precarietà della situazione di
Venezia, praticamente circondata dall'Austria, ma teme anche la Francia,
della quale scrive: ".assai perturbata all'interno, non è improbabile
che azzardi dei pericoli esterni per risanarsi".
E' una chiara previsione degli avvenimenti successivi, della
rivoluzione francese; di qui il consiglio che rivolge pressante alla
Repubblica: non fidarsi del rispetto degli altri, prepararsi, anche
riarmare, anche allearsi all'Austria in lega difensiva; così non può
durare a lungo. In questo periodo va formandosi quella linea politica,
detta appunto reniera, che è la fusione tra la sua esperienza e il suo
carattere: l'abbandono della rassegnata neutralità e il ritorno sulla
scena europea, per prepararsi ad eventi, per ora imprecisabili, ma certo
gravi.
I suoi messaggi sono prodighi di incitamenti: "Fortunati quei principi
che sono pronti con forze militari a non lasciarsi offendere". "Non vi è
maggiore sicurezza che quella di temere di continuo le violenze altrui".
"In questo secolo altro non possono fare i principi che mostrare la
forza
per non cadere nel disprezzo e nella servitù". "Gravissimo errore è
quello di fidarsi dei vicini".
Tutto inutile, queste sue ammonizioni preveggenti gli procurano solo
censure e addirittura sospetti da parte dei suoi miopi contemporanei,
che preferiscono vivere alla giornata: alcuni suoi messaggi non vengono
neanche letti in Senato perché creano fastidio. Anche per quanto
riguarda l'aspetto organizzativo, il confronto tra gli efficaci metodi
di governo dell'impero e quelli dell'amata Repubblica, non più adeguati
ai tempi perché antiquati e troppo frammentari, aumentano certamente le
sue preoccupazioni.
Rimase colpito ad esempio dal fatto che l'imperatrice convocava due
volte la settimana i suoi ministri, i quali dovevano rendere conto del
loro operato e si sentivano quindi pungolati, e lei dava le direttive.
Forse pensava alle lungaggini del Maggior Consiglio e all'impotenza del
Doge, e qualche episodio fa pensare che abbia auspicato un vigoroso
cambiamento, nel senso di rendere il potere della Repubblica più snello
ed autorevole, per mettersi alla pari con gli altri stati europei. Ma
ormai la Repubblica era così, nessuno aveva la forza per cambiarla, e
questo stato di impotenza lo addolora. Il periodo passato alla corte di
Vienna è comunque ricco di soddisfazioni. Emerge fra gli altri
ambasciatori puntando sulla messa in scena, sull' apparato fastoso
dell'ambasceria, che gli inghiotte parte del suo non opulento
patrimonio; punta sulla sua innata arte di piacere, di conversare, sulla
sua cultura, sull'arguto spirito veneziano, nel quale i patrizi sono
maestri.
Un suo contemporaneo lo definisce "lusinghevole sirena" e
l'ambasciatore austriaco non manca addirittura di mettere in guardia il
suo governo che la sua eloquenza e il suo fascino possono essere
ingannevoli. Ottiene aperto successo, mondano e politico, perché la
corte di Vienna è l'ambiente ideale nel quale può mettere a frutto le
sue doti, esercitare la sua ambizione ed insieme giovare alla Repubblica
aumentandone il prestigio. Il figlio di Maria Teresa, Giuseppe II, poi
imperatore, lo chiama
pubblicamente suo amico, avevano in comune idee in senso liberale. Si
ritroveranno in un successivo incontro a Venezia. Si riporta questo
episodio che avrà un seguito. Era a Vienna in quel periodo Giacomo
Casanova, che aveva ricevuto un ordine di espulsione per aver praticato
giochi d'azzardo. Si rivolse all'ambasciatore il quale, mentre era a
pranzo con il ministro principe Kaunitz, riuscì a far revocare
l'espulsione, ricorrendo alla sua persuasiva diplomazia. Al suo ritorno
non riposa; lancia una proposta di costituire una lega almeno difensiva
con l'Austria, e in tal senso parla per due ore e mezzo in Senato; ma
non riesce a scuoterlo dalla scelta politica di stretta neutralità:
neutralità sempre e con tutti. E' noto quanto poco valore abbiano i "se"
nella storia, ma forse, se lo avessero ascoltato, un blocco
austro-veneto, che pure certamente avrebbe infeudato ancor più Venezia
all'Austria, avrebbe potuto però creare un solido baluardo all'ondata
napoleonica.
Bailo a Costantinopoli.
Il suo rientro non dura a lungo: nel 1769 viene nominato Bailo a
Costantinopoli. La carica di "Bajlus" era stata istituita nel 1265 per
sottolineare il rilievo di questo ambasciatore, in relazione
all'importanza
politica, strategica, commerciale di Costantinopoli, capitale dell'
impero ottomano. Aveva la possibilità, frequentando l'ambiente della
"Sublime Porta", centro di politica e di intrighi, di ottenere notizie
preziose, e di svolgere un'intensa attività diplomatica. In alcune
circostanze veniva consultato
dallo stesso Visir. Esercitava ampi poteri nei confronti dei molti
Veneziani residenti o in transito, sia in materia giudiziaria, sia
commerciale, ed era circondato da una piccola corte. Sintomatica della
sua propensione di cercare sempre di mettersi in luce è la lettera che
invia al Senato dalla stessa nave che lo porta in oriente: ".li publici
comandi furono, come lo saranno sempre, da me rispettati e ciecamente
obbediti; la mia persona, per l'intero corso della sua vita tutta si
dedicò al servizio dell'amata patria nei santi e molteplici interni ed
esterni servizi.". Nell'avvicinarsi alla costa turca, la sua nave viene
presa a cannonate perché scambiata per una nave russa; poi,
riconosciuto, viene fatto oggetto di festose accoglienze con tamburi,
spari, cortei, ed un messaggio del Sultano che si conserva in originale
nell'Archivio di Stato, pieno di complimenti.
Lo aspetta un ambiente infido e tipicamente orientale, ben diverso da
quello aulico di Vienna. Ma deve accettarlo per svolgere la sua
missione, e si impegna con energia, perché le difficoltà gli sono
congeniali. Comincia il primo giorno ad avere uno scontro con
l'ambasciatore di Danimarca, che
pretendeva di avere la precedenza su di lui: su di lui, Bailo della
Serenissima! E naturalmente la spunta. In una lettera privata ad un
amico esprime la sua forte avversione nei riguardi degli usi e costumi
dei Turchi, che erano del tutto diversi dai suoi principi morali. Quando
trattava con loro doveva naturalmente fare attenzione a non esprimere
alcun giudizio; e lui, abituato in patria alla
libertà di parola ed anche di scontro, si sentiva a disagio, compresso
nella sua personalità. Il momento era molto delicato per Venezia. Era in
corso una guerra tra la Turchia e la Russia, scatenata all'ambiziosa
Caterina II, una pagina di storia importante perché segnò il declino
della potenza turca, e la presenza russa nel Mediterraneo.
La potenza turca non era più quella di un tempo: la flotta era in piena
decadenza, l'artiglieria che doveva difendere i Dardanelli era tenuta in
efficienza da agenti francesi, la capitale correva il rischio di essere
conquistata. L'impero ottomano aveva raggiunto nel momento del suo
massimo splendore una
estensione enorme, ed ora sembrava una preda ferita alla quale tutti
cercavano di strappare un pezzo: l'Austria mirava ai Balcani, la Russia
alle regioni a nord del mar Nero, i Greci all'indipendenza, anche la
Francia e la Spagna tramavano per ricavare qualche vantaggio; Venezia si
accontentava di difendere le sue posizioni e i suoi traffici. La flotta
russa con un'impresa molto ardita si era trasferita dal Baltico
all'Egeo per attaccare direttamente Costantinopoli. Venezia possedeva
molte isole nell'Egeo ed una flotta sia militare sia commerciale ancora
efficiente, per cui rischiava di trovarsi coinvolta in una guerra che in
ogni caso le avrebbe procurato solo danni. Di qui gli sforzi della
diplomazia veneziana di mantenersi in una difficile neutralità. I Turchi
infatti a stento potevano credere che le navi russe, prive di basi, non
si appoggiassero a quelle veneziane, e viceversa i Russi sospettavano
che i Veneziani lavorassero a vantaggio dei Turchi. Per complicare le
cose, la nuova amicizia tra Greci e Russi, rinsaldata dalla comune
religione ortodossa, aveva rinfocolato le aspirazioni all'indipendenza
delle isole greche comprese nel dominio veneziano, creando difficoltà a
Venezia. Il nuovo Bailo quindi giunge in un momento di grande
turbolenza. Prende contatto con tutti gli ambasciatori, con i ministri
turchi e con il Visir, che gli esprime la sua simpatia; tratta con la
Zarina per istituire una
rappresentanza russa a Venezia e per regolare i commerci delle due
nazioni rispettivamente nel mar Nero e nell'Adriatico; cerca di
riportare la pace fra i due contendenti. Le qualità di Paolo Renier sono
le più adatte per curare gli interessi di Venezia; sono 118 i dispacci
che in quattro anni spedisce al Senato, e dimostrano la solerzia con la
quale assolve il delicato incarico. Costituiscono la fonte principale
delle notizie di vario genere, alla quale attingono gli storici che
trattano questo periodo. Particolarmente
toccante è il messaggio nel quale descrive le sue sofferenze per
un'influenza che lo aveva colpito, assieme a gran parte della
popolazione locale.
Avanza proposte ardite, che non trovano l'approvazione del sospettoso
Senato, che conosce il suo dinamismo. Ad esempio, quando viene a sapere
che esiste la possibilità che l'Austria si allei con la Russia, propone
che Venezia si unisca all'alleanza, per dare un colpo decisivo
all'antico nemico
turco; o almeno ipotizza che in questa occasione la Repubblica si
avvicini all'Austria, facendo pesare la sua neutralità. ".Vienna fa
movimento d'armi, e questo sarebbe il momento buono., posto dunque che
una nuova guerra si accenda fra Casa d'Austria e la Porta, Vostre
Eccellenze vogliano approfittare dalla combinazione almeno negoziando
quella neutralità che osservare volessero.dubitare non posso
che.potessero venire con una ben condotta negoziazione.delle cose
utilissime." E' evidente che continua ad accarezzare quel progetto di
avvicinamento all'Austria che aveva abbozzato a Vienna. La sua
concezione di fondo era questa: l'Austria è una nazione forte, molto
vicina; ci conviene andare
d'accordo, sarà un alleato scomodo ma è meglio così piuttosto che un
giorno o l'altro, visti i rapporti di forza disastrosi nei nostri
riguardi, non ci attacchi all' improvviso. Ma il Senato è irremovibile
ed il Bailo deve usare tutta la forza di persuasione per convincere i
sospettosissimi ministri turchi della buona fede di Venezia.
Raggiunge i due obiettivi di fondo: mantenere la neutralità di Venezia,
come chiesto dal Senato, e tutelare le navi veneziane che navigano tra i
due contendenti. Si cita questo episodio: la flotta russa attacca un
porto turco dove sostano anche navi veneziane; quando queste esibiscono
lo stendardo di San Marco, i Russi sospendono le ostilità fino a quando
i Veneziani non si sono allontanati. Quando nel '74 la guerra ha
termine, riprende per Venezia l'esigenza di riattivare le sue attività
commerciali nella zona. Il Bailo riesce a far entrare navi veneziane nel
mar Nero, non essendogli sfuggita l'importanza di
attivare rapporti con l'emergente mercato russo. Infine compie
quell'impresa che è il suo capolavoro diplomatico. Costantinopoli era in
preda alla carestia, urgevano rifornimenti; approfittando con rontezza
di un momentaneo offuscamento della usuale influenza francese, riesce
ad ottenere per le navi veneziane l'appalto dei relativi
approvvigionamenti, con grande vantaggio per il languente commercio.
I suoi critici insinuarono che anch'egli ne abbia tratto dei vantaggi,
dimenticando che al Bailo spettavano dei diritti doganali sulle attività
commerciali svolte nel suo ambito. La sua popolarità raggiunse il
massimo ed i suoi rapporti con il Sultano stesso diventarono più
stretti. Quando 48
navi cariche di grano egiziano, grazie al suo interessamento, entrano
nel porto della città affamata, si levano alte acclamazioni per Venezia.
Erano lontani i tempi di Lepanto, ed ha qualcosa di patetico il fatto
che questi due antichi nemici abbiano trovato un momento di
collaborazione proprio quando erano entrambi al tramonto. I suoi
dispacci non nascondono il suo compiacimento ed anche il Senato, che
di solito era stato piuttosto freddo con lui, non risparmia gli elogi:
"il Senato, che ritrae continuati contrassegni del zelo che vi distingue
nell' esercizio del ministero da voi lodevolmente sostenuto, con sensi
di piena laude e gradimento, non dubitando della vostra ben nota
diligenza". In occasione dell' assunzione al trono del nuovo Sultano,
dovendosi mandare un ambasciatore straordinario che rappresentasse la
Serenissima, viene incaricato lo stesso Bailo, con queste parole: "si
determina di commettere a voi questo incarico, nella fiducia che per le
doti e talenti che vi adornano, e per i molti saggi di virtù e prudenza
che ritratti si sono in tutte le occasioni degli impegni interni ed
esterni che avete con particolare merito sostenuto, saprete supplirvi
nel più aggiustato modo alle ufficialità dell'occasione". Analogo
messaggio viene inviato al Sultano Habdul Hamid dopo le congratulazioni
ed auguri di rito. Durante il bailaggio egli, come a Vienna, volle
restaurare a sue spese la sede dell'ambasciata e vi pose una lapide con
il suo nome e stemma. Questo episodio mette in rilievo un aspetto della
sua personalità, rilevabile anche in altri casi: quando faceva qualcosa
di egregio, ci teneva a farlo sapere.
L'ambasciata veneziana è diventata il consolato italiano a Istanbul e
la lapide è visibile nell'annesso edificio denominato "residenza
estiva", che può essere visitato a richiesta. Il periodo di soggiorno a
Costantinopoli è forse quello delle maggiori soddisfazioni. La
frequentazione della "Sublime Porta", i contatti con altissimi
personaggi come il Sultano ed il Visir, la supremazia sui colleghi
ambasciatori, la piccola corte di Veneziani attorno al Bailo, la
possibilità di gestire attività commerciali, il consenso della
popolazione, corrispondono perfettamente alla sue aspirazioni.
Al momento del rientro, il Bailo riceve dal governo turco grandi
riconoscimenti: gli vengono donati un cavallo riccamente bardato e una
pelliccia preziosa.
Dopo essere stato, per otto anni, ambasciatore presso due fra le più
importanti capitali europee, quelle dell'impero asburgico e dell'impero
ottomano, segue una sosta relativa, perché dapprima ricopre la carica di
Inquisitore, poi il 14 gennaio 1779 viene eletto Doge, ottenendo la
totalità, meno uno (il fratello) dei voti dell'ultima commissione dei
41. Giacomo Casanova approfitta della sua elezione: forse per sdebitarsi
del favore ricevuto a Vienna, ma più sicuramente per entrare nelle
grazie dei
potenti, pubblica un libretto che è una forte critica di Voltaire, e
aggiunge una dedica che è un capolavoro di adulazione del nuovo Doge,
per cui è il caso di riportarne qualche brano:
"Al Serenissimo Principe Polo Renier - Doge di Venezia: questo picciolo
libro, che con riverenza maggiore del mio ardimento supplico vostra
Serenità di benignamente accogliere, uscì recente dalla mia rozza penna,
mi determinai di procurargli l'alta sorte di trattenere per qualche
momento il
sublime ingegno di vostra Serenità, quella bella e luminosa mente,
ch'ebbi campo di scoprire tanto ricolma di dottrine, e di acutissimo
discernimento, quanto guardinga a distribuire lodi. Sono col più
rispettoso, e col più profondo ossequio, Serenissimo Principe, di vostra
Serenità, l'umilissimo,
devotissimo, ossequiosissimo, infimo servo e suddito Giacomo Casanova".
ASCENDENZA DEL DOGE
(da "la Famiglia Renier", dell'Ing. Paolo Renier,
Venezia 1975)
DISCENDENZA DEL DOGE
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