Paolo Renier - doge 1779-1789

     

 

 

Paolo Renier fu l'ultimo dei notevoli dogi e una delle personalità più brillanti del settecento veneziano. Nacque il 21 Novembre 1710 da Andrea (di Daniele di Antonio) e da Elisabetta dei Morosini di S. Tomà, quintogenito di dieci fratelli. Da fanciullo si dedicò con impegno a studi approfonditi, più di quanto fosse consueto per i giovani patrizi del tempo, raggiungendo una vasta erudizione nella storia, nella letteratura, nelle lingue latina e greca, quest'ultima parlata correntemente (tradusse Platone in veneziano). Dinamico, ambizioso, rapidissimo nell'afferrare le situazioni, aperto a tutte le idee (si iscrisse alla società dei "Liberi Muratori"), fu al centro di ogni ambiente; sapeva affrontare e conquistare tutti, dal popolano all'imperatrice Maria Teresa, dai subdoli ministri turchi al Maggior Consiglio nelle più burrascose sedute. Goethe fissò nei suoi appunti l'impressione di maestosità che ne ebbe al solo vederlo passare; i patrizi più in vista si onoravano della sua amicizia; per lungo tempo fu elemento determinante negli affari di stato; curò in alto grado, negli incarichi svolti all'estero, il prestigio suo e della Repubblica. Di lui fu scritto: <... era bello della persona, nobile ed ilare della faccia, vivace degli occhi, facondo del labbro, pronto alle risposte, faceto con decoro, filosofo, politico>. Prende moglie nel 1733 sposando Giustina Donà dalle Rose (vedi ritratto sopra, museo di Cà Rezzonico - Venezia), figlia di Leonardo e di Marietta Contarini. Da Giustina ha tre figli: Andrea, che sposerà Cecilia Manin, sorella dell'ultimo Doge, Leonardo e Lisa (entrambi morti in tenera età). La sua carriera fu fortunata fin da giovanissimo, quando, il giorno di S. Barbara, viene estratto a sorte per l'ingresso anticipato al Maggior Consiglio. Subito cerca di mettersi in luce, tanto che appena trentenne è nominato Savio alla Scrittura, cioè ministro delle forze armate. La sua esuberanza ancora acerba, si manifesta negli attriti che insorgono con i generali dell'esercito, perchè egli è risoluto a svolgere le sue funzioni. Nel 1741 ispeziona i presidi di terraferma, e denuncia, facendoli punire e radiare, molti ufficiali. Si applica quindi intensamente alla vita politica, ricoprendo le cariche di senatore, Savio Grande, Inquisitore sopra i dazi, Correttore sopra la Promissione Ducale, Riformatore dello Studio di Padova (in pratica ministro per l'Istruzione), Savio alla mercanzia e di terraferma, Revisore alle entrate, Provveditore alla sanità. In particolare si dedica alle trattative con la Santa Sede per la definizione delle prerogative ecclesiastiche; dopo l'incoronazione di papa Rezzonico, alla quale assiste come inviato della Repubblica, la spinosa questione trova un accomodamento sulla base delle sue proposte. Nel giugno 1751 muore la moglie Giustina che viene sepolta nella chiesa di Sant'Antonio a Padova (sposerà successivamente la greca Margherita Dalmet, donna di notevole bellezza, da cui avrà un figlio: Giuseppe). Nel 1761 scoppia la cosidetta "congiura Querini": un gruppo di patrizi innovatori promuove una tenace azione contro gli inquisitori di Stato. Li guidano Angelo Querini e Paolo Renier, legati fra loro da una profonda amicizia. Alla fine il primo viene arrestato, il secondo continua a battersi contro la maggioranza conservatrice, a denunciare i mali che affliggono la Repubblica; è in tale occasione che egli tiene la parola per ben cinque ore davanti al Maggior Consiglio. Il Renier difende con grande foga i suoi ideali di rinnovamento, ma non è ancora passato attraverso l'esperienza diplomatica, la quale gli farà capire quanto sia precario l'equilibrio della Repubblica in sede internazionale. Questa fase inizia nel 1764 quando viene nominato ambasciatore a Vienna, ed è utilissima per affinare le sue doti, allargare le sue cognizioni. I quattro anni passati a Vienna costituiscono un incondizionato successo: egli nulla trascura per far risplendere il decoro della Repubblica, per primeggiare con la sua cultura. I risultati non mancano: l'imperatrice Maria Teresa ed il figlio Giuseppe II lo ammettono alle loro private conversazioni, lo considerano un amico personale, gli conferiscono un titolo cavalleresco. Da questo punto di osservazione egli ha la possibilità di riferire il quadro completo della situazione europea, perchè ha modo di rendersi conto quanto siano fragili la Repubblica e le sue forze armate nei confronti dei colossi europei. Ha origine così la nutrita serie di ben 229 dispacci, che sono altrettanti appelli, sempre più angosciati rivolti al Senato per scuoterlo dalla sua inerzia, per incitarlo a rafforzare l'apparato militare contro i prossimi probabili sconvolgimenti. Egli abbozza a tal fine un'alleanza con l'Austria, ma non viene ascoltato, ed i suoi scritti, nonchè un discorso di due ore e mezzo rivolto al Senato, rimangono solo come documenti di alta e previdente politica non sorretta da un governo capace di attuarla. Il Casanova, durante l'esilio a Vienna, cercò la sua protezione. Scrive nelle sue Memorie: <Polo Renier, uomo colto e intelligente, mi stimava, ma il mio affare con gli inquisitori non gli consentiva di ricevermi>. In seguito il Casanova dedicò al Renier, dopo l'elezione a doge, un suo libro su Voltaire. Nel 1769 è nominato Bailo di Costantinopoli. Il Bailo era un ambasciatore  dotato di una speciale posizione di preminenza, e per tradizione veniva considerato dallo stesso governo turco come un consigliere del Visir. Qui l'ambiente è completamente diverso , saturo di drammaticità per le recenti sconfitte subite da parte della Russia: vi regnano gli intrighi tipici delle corte orientali alle quali si aggiungono le manovre delle grandi potenze occidentali per accaparrarsi posizioni di forza a fini commerciali. Le qualità del Renier sono le più adatte per curare gli interessi di Venezia, e 118 messaggi dimostrano la solerzia con la quale assolve il delicato incarico; egli ritorna ad auspicare un'alleanza di Venezia con l'Austria contro i turchi, e rapporti commerciali più stretti con la Russia. I risultati concreti non mancano, ed il più vistoso consiste nella assegnazione, da parte del governo turco alla marineria veneziana, dell'appalto dei rifornimenti di Costantinopoli, con grande vantaggio per la languente attività commerciale della Repubblica. Al suo rientro a Venezia nel 1773 il Renier è già avanti negli anni, eppure si getta nuovamente nella politica con giovanile dinamismo puntando questa volta alla carica più ambita, il dogado, che egli consegue il 14 gennaio 1779. La vita politica veneziana attraversa un periodo travagliato. ed al nuovo doge si presenta subito una prova assai pesante. Si è ricostituita una corrente di innovatori che fanno capo a Carlo Contarini ed a Giorgio Pisani, e le discordie interne raggiungono intensità mai conosciute. Molti e complessi sono i motivi dei disordini: idealismi, interessi, ambizioni, insoddisfazioni, demagogia, paura del nuovo. Non è affatto un dissenso fra patriziato e popolo: gli innovatori non propongono di mutare il sistema aristocratico, ma solo di eliminare gli abusi, di migliorare il sistema. Però il loro modo di procedere, la loro irruenza, è tale, da ingenerare nei patrizi, ed anche nel popolo, in larga parte inquadrato in corporazioni monopolistiche, uno stato di profonda diffidenza, il timore che le istituzioni repubblicane, così ben congegnate attraverso un lavoro secolare, avessero a sfasciarsi del tutto. Le situazioni erano così cristallizzate che ognuno temeva un danno da eventuali sconvolgimenti. Per mesi continuarono violente le discussioni, fino a quando il Doge credette suo dovere intervenire, e pro fine ad una situazione sempre più pericolosa. Egli prima redasse uno schema di risoluzione, poi perorò presso il maggior Consiglio la causa della intangibilità delle istituzioni, della necessità di sacrificare aspirazioni particolari al bene comune, ed ottenne un pieno successo. molti lo accusarono, sia allora sia in seguito, di aver mutato parere rispetto ai suoi precedenti liberali. Certo questo atteggiamento deve essere stato doloroso per il Doge, ma egli era ormai al di sopra delle fazioni, e l'esperienza nel frattempo maturata all'estero lo ammoniva chiaramente che per sopravvivere accanto a potenze tanto più grandi, alla Repubblica rimaneva solo un punto di forza: la saldezza delle istituzioni, la concordia dei suoi governanti. Egli cioè vedeva le cose non solo dall'alto, ma dall'esterno, e questo punto di vista, che collocava nelle giuste proporzioni le piccole diatribe interne, fece presa sul Maggior Consiglio, fu decisivo nel risolvere la crisi: gli innovatori vennero messi in minoranza, e furono arrestati gli avvocati Pisani e Contarini, i quali furono confinati rispettivamente a Verona e a Cattaro nel maggio del 1780. Altri avvenimenti notevoli che illustrarono il suo dogado furono le vittorie di Angelo Emo contro i barbareschi a Tunisi, le fastose visite di Pio VI e dei principi ereditari di Russia, il riordino dei codici, riforme nell'istruzione pubblica, provvedimenti contro il lusso, il completamento dei murazzi. Una lapide a Pellestrina ricorda il Doge che concluse questa opera colossale: PRINCIPATUS PAULI RAYNERII - INCLITI DUCIS - ANNO SALUTIS MDCCLXXIX - AQUARUM CURATORES - FACIUNDUM CURARUNT. Morì il 13 febbraio 1789 dopo 37 giorni di malattia. Il Doge non si turbò affatto al sopravvenire del male e disse: <La vita è un dono del creatore, che quando gli pare se la riprende. Ma come la si riceve immacolata con il battesimo così si deve rendergliela. Chiamatemi perciò il confessore per purgarmi dei peccati e perchè confortato dall'Eucarestia possa accingermi al viaggio dell'Eternità>. Lo commemorò l'abate Emanuele De Azevedo nei funerali solenni, che ebbero luogo ai S.S. Giovanni e Paolo, e costarono la ingente somma di lire 68.267. Durante il discorso il De Azevedo suffragò le antichissime origini della famiglia, dalmate e prima ancora perugine: < Amadori Rainerius, qui Spada dicebatur, filius Marchionis Rainerii Perusini, Ragusium adiit, ubit inter nobilis adscriptus fuit; se Venetias transtulit Rainerius Amadori filius, et Nicolaus Rainerii filius inter optimates adnotatus est anno 1122. Vide strumentum membranaceum saeculi XI in archivio Cathedrali Eugubii, et vetustissimam tabulam genealogicam Civitatis Rainerii in Agro Perusino, et aliam initio elapsi saeculi in ipso Raineriorum palatio Perusiae asservatam>. Venne portato in una grande barca scoperta coll'accompagnamento del clero di S. Marco ed al chiaroscuro di numerose grosse torce alla chiesa di S. Nicolò dei Tolentini, dove fu sepolto nella tomba di famiglia, a destra, contrassegnata dallo stemma.  

          

 

              

Spesso, da parte di chi scrive del Renier, viene riportata una diceria, quella di aver corrotto parte dei componenti del Maggior Consiglio in occasione della sua elezione. L'invidia fu certamente all'origine di queste voci; si consideri che con la sua forte personalità il Renier si era creato inevitabilmente molti nemici, tanto che alla vigilia delle votazioni venne scoperto addirittura un attentato alla sua vita. Non si può escludere che egli, in occasione della elezione, abbia fatto a posteriori delle elargizioni ai <barnabotti> (come venivano chiamati i nobili in disagiate condizioni). Il Molmenti ed il Musatti affermano del resto che queste elargizioni da parte del neo eletto erano divenute una consuetudine. Ma chi conosce la complicatissima procedura dell'elezione a doge, costituita da reiterate elezioni di gruppi, successive eliminazioni a sorte, e nuove elezioni, nonchè i rigidi regolamenti del Maggior Consiglio, può escludere in via assoluta che si potesse escogitare un sistema di irregolarità preventiva, a meno di non corrompere l'intera assemblea, composta allora da 967 membri. Ben più sostanzioso ed attendibile è il giudizio che del Doge, quale statista, politico, veneziano, diedero studiosi indiscussi. Nicolò Tommaseo: <Paolo Renier, leggitore di Platone e Aristotele, al quale nel 1780 dedicò Gaspare Gozzi il suo "Cebete", di sangue dalmatico, ultimo doge degno degli antichi, che se viveva qualche anno ancora, avrebbe meglio adoperato il fedele ardimento dei dalmati, avrebbe salva la Repubblica, e l'Italia forse>. Girolamo Dandolo: <..non così sarebbe avvenuto (la caduta ingloriosa della Repubblica) se Paolo Renier avesse ancora occupato il seggio ducale>. Pompeo Molmenti: <.. Paolo Renier, oratore pieno di dignità, di convincimento, di affetto>. Giuseppe Cappelletti: <.. egli era adorno di vasta erudizione, particolarmente nelle lettere greche e latine, era grande politico,era parlatore energico ed animato>. Gianjacopo Fontana: <..di acutissimo ingegno, di meravigliosa facondia, fu orgoglio e vanto di Venezia, aveva forza virile e ferrea costanza, sostenuta nella sua matura esperienza e nella perspicacia dei suoi giudizi, dal presentimento dei futuri destini della patria; principe, lo diremmo insomma, per le più cospicue doti, inarrivabile>.

Dipinto di Gabriel Bella, celebra la visita di Papa Pio VI a Venezia il 19 Maggio 1782, alla presenza del Doge Renier

 

Integrazione a quanto sopra ricevuta dal Dott. Alessandro Renier, diretto discendente del doge,

Marzo 2007


Un avvenimento eccezionale per quei tempi fu la visita del Papa Pio VI, di  passaggio a Venezia nel maggio del 1782, dopo la sua missione a Vienna. Era  dal tempo del famoso incontro tra Papa Alessandro III e l' imperatore  Federico Barbarossa (1177) che un Papa non visitava Venezia. Accolto con  grande pompa, alloggiato al convento dei SS. Giovanni e Paolo, il Pontefice benedisse la folla accanto al Doge. I due alti personaggi ebbero un lungo  colloquio privato, sul quale nulla si sa; ma poiché il Papa era andato a  Vienna proprio per parlare con Giuseppe II del quale erano note le idee
 liberali, ed il Doge conosceva bene la corte di Vienna e lo stesso  imperatore, è facile dedurne che i due abbiano esaminato a fondo la  situazione politica ed europea quale si profilava alla luce delle idee
 rivoluzionarie che cominciavano a serpeggiare. Cinque celebri quadri di  Francesco Guardi celebrano questo avvenimento.
 
 In quello stesso anno vennero a far visita a Venezia il granduca di Mosca  Paolo Petrowitz, futuro Zar di Russia Paolo II, e sua moglie; viaggiavano in  incognita sotto il nome di Conti del Nord. Vennero accolti con una regata  in Canal Grande, feste e luminarie; per l'occasione fu organizzato un
 combattimento di tori in piazzetta San Marco. La popolazione partecipava  intensamente a questi festeggiamenti, tanto che il granduca disse: "Voila  l'effet du sage gouvernement de la République. Ce peuple est une famille".  L'evento venne descritto da Francesco Guardi con sei noti dipinti.
 Nel 1784 venne a Venezia il re di Svezia Gustavo III, ed una grande festa  venne organizzata dai Pisani nel loro palazzo a Santo Stefano.  Anche l'imperatore d'Austria Giuseppe II in tale periodo fece due visite a  Venezia.
 
 Una vicenda che illumina in modo più incisivo il Dogado è la spedizione  contro il Bey di Tunisi che nel 1784, dopo una serie di contrasti, aveva  dichiarato guerra a Venezia. Sotto il comando di Angelo Emo, l'ultimo  grande Comandante da mar, brillò per l'ultima volta la gloria della  Serenissima.
 Il 21 giugno 1784, salutata dalla popolazione posta sulla riva degli  Schiavoni, salpava per l'ultima volta la flotta da Venezia; era costituita  da venticinque navi, fra cui due vascelli di primo rango e quattordici  fregate grosse, fra cui la nave ammiraglia "Fama", appena ultimata nei  cantieri dell'Arsenale.  Nel corso di un triennio (1784-1786) la flotta veneziana tenne sotto  controllo le coste algerine e tunisine e bloccò o bombardò i relativi porti;  venne utilizzato tra l'altro un ingegnoso sistema di piattaforme  galleggianti armate con mortai, che consentiva di navigare nei bassi
 fondali; tale impresa rimase nella storia militare. Dopo lungo guerreggiare  e trattare si giunse ad una pace che restituì sicurezza sui mari, con  sollievo e pubblici ringraziamenti, anche da parte della Francia e della  Russia.
 
 Rivolgendoci alle vicende interne, è da ricordare quella che più di altre  mette in luce il prestigio del quale godeva il Doge, che nel 1780 riuscì a  risolvere una situazione assai critica per le istituzioni. La vita  politica veneziana attraversava un periodo travagliato, ed al nuovo Doge si  presentò subito una prova assai pesante.  Si tratta di quell'aspro scontro di idee e di uomini che va sotto il nome di
 congiura Contarini-Pisani, due patrizi di elevato ingegno e profonda cultura  giuridica che, avanzando forti proteste per l'andamento dell'economia, per  la situazione del popolo, per il farraginoso andamento delle istituzioni,  provocarono accesi dibattiti nel Maggior Consiglio ed un periodo di grande
 turbamento nella politica e nei rapporti personali fra i patrizi; aspetto  questo impalpabile, ma che aveva un grande peso per il buon funzionamento  degli organi collegiali sui quali la Repubblica si reggeva. Non ci furono turbamenti tra patrizi e popolo, perché, pur facendosi  portatore di idee democratiche, Contarini concepiva riforme all' interno del sistema aristocratico.
 Non è il caso di narrare i particolari, ma è da rilevare la passione  politica che ancora animava alcuni, perlomeno, fra i patrizi, la loro  profonda conoscenza della intricata e antica legislazione veneziana e la
loro oratoria, che li faceva parlare per ore intere. Gli scontri durarono a lungo, quasi cinque mesi, ed erano rimaste in  votazione due "parti", oggi si direbbero mozioni; il momento era delicato e
 c'era il pericolo che il corpo patrizio si spaccasse in due, con gravi  conseguenze sull'opinione pubblica, indipendentemente dall'accettazione di  una mozione o dell'altra.
 A questo punto il Doge prese la parola e parlò, ascoltato in piedi dagli 843  patrizi presenti, proponendo una sua mozione che annullava tutte le altre.  Impiegò tutta la sua arte oratoria un po' rampognando i più riottosi, un po' adulando il corpo patrizio, un po' adombrando i pericoli che minacciavano la  Repubblica, facendo leva su ragionamenti ma anche sui sentimenti dei  patrizi.
 Il suo discorso, un capolavoro oratorio e di diplomazia, è riportato quasi  integralmente su importanti testi di storia, come il Romanin e il  Cappelletti. Ne riporto alcuni brani: "Oggi tutti i monarchi ci osservano,  aspettano novità, sempre pronti a trarre vantaggio da queste nostre  difficoltà, traendone conseguenze che terrorizzano l'animo nostro. chiamo Dio a testimonio: mi sono trovato a Vienna al tempo dei torbidi polacchi, ed  ho sentito ripetere: i signori polacchi non hanno giudizio, contendono tra di loro. Li aggiusteremo noi, ci divideremo la preda.". Continuò con una frase che viene riportata spesso nei testi di storia  veneziana: "Se c'è stato che abbia bisogno di concordia, siamo noi, che non
 abbiamo forze né terrestri, né marittime, non alleanze, viviamo a sorte, per  accidente, e viviamo con la sola idea della prudenza della Repubblica.  Questa è la nostra forza.". E' una frase coraggiosa che descrive bene la situazione, ma può apparire  rinunciataria, eccessivamente pessimista e non delinea bene il personaggio,  che non era affatto debole e rinunciatario, per cui richiede una  spiegazione. Bisogna tener presente che era pronunciata nel segreto del  Palazzo Ducale, rivolta solo ai patrizi, con il chiaro intento di spronarli,  a costo di spaventarli. Era insomma strumentale, ma fu molto efficace,
 raggiunse lo scopo di rappacificare il Maggior Consiglio e sedare i  contrasti. Riferisce il Cappelletti: "Queste parole del Doge produssero tale effetto di  commozione e di applauso, che la proposizione fu accettata con pienezza di  voti". La Repubblica poté continuare il suo cammino. Questa vicenda dimostra quanto grande fosse la forza di persuasione del  Doge, la sua personalità, la sua oratoria. Egli riuscì, con diplomazia ma  anche con energia, a dominare un'assemblea di un migliaio di patrizi. Se
 il contrasto fosse continuato, la Repubblica poteva sfasciarsi. E' da  tenere presente che i regolamenti non permettevano al Doge di intromettersi  troppo nelle decisioni da prendere; quando un Doge tentò di farlo, un  senatore lo invitò bruscamente "a starsene nella sua sedia, a godere  dell'onore datogli". Comunque a seguito di queste discussioni, per quanto  aspre, vennero adottate decisioni importanti: il risanamento dell'Arsenale,  il riordino dei codici, il contenimento del lusso. Anche nei confronti
 dell'estero, vennero ripresi rapporti con l'Olanda, i Paesi Baltici, la  Russia di Caterina, iniziati da Paolo Renier quando era Bailo; nel 1786 ci  furono contatti anche con gli Stati Uniti d'America; giunsero infatti a  Venezia John Adams, Benjamin Franklin e Thomas Jefferson, padri fondatori
 del nuovo governo degli Stati Uniti d'America, che la Repubblica aveva  riconosciuto per prima, per studiare le leggi dell'ordinamento veneziano (la  Costituzione Americana fu completata a Philadelphia nel settembre del 1787).  Tuttavia le proposte di un trattato commerciale e di amicizia fra le due
 repubbliche non ebbero seguito. Altra frase di rilievo del suo lungo intervento fu: "i nostri sudditi vanno  trattati come compagni. Sapete come si faceva una volta? Si andava nelle  nostre terre e si riceveva tutti in forma solenne. Perché i principi che  non hanno forza devono riporre la loro sicurezza nell'amore dei sudditi.  Questo è il vero bene del patrizio. Dio non ha fatto più bel Paese di
 questo, bisogna metterlo in attività, bisogna avere rette intenzioni.  Bisogna amare la Patria, come la amo io. Questo è il bene, questa è la grandezza dei governanti". Parole che sono illuminanti sul concetto che i  patrizi avevano del potere: deve essere esercitato con fermezza ma anche con
 umanità, utilizzando il fasto per colpire l'immaginazione, mantenendo un  rapporto diretto ed aperto con il popolo. E' una lezione di saggia politica che, se applicata altrove, avrebbe forse
 risparmiato qualche rivoluzione, ed è anche un esempio della natura  socievole del Doge, che gli faceva cogliere gli aspetti delle varie  situazioni e risultare simpatico quando era opportuno. Questo intervento  costituì comunque un momento delicato per il Doge, e gli costò sacrificio,  perché diede l' impressione di schierarsi con l'ala conservatrice, tradendo  le sue idee liberaleggianti sostenute in gioventù; anche l'amico Querini  l'abbandonò e, per dispetto, sfregiò il busto che lui stesso aveva
 commissionato ad Antonio Canova; in seguito venne restaurato. Ma l'altissima carica che ora ricopriva gli imponeva di anteporre  l'interesse supremo della Repubblica; la sua esperienza maturata all'estero,
 specialmente a Vienna, gli presentava chiaramente i pericoli che essa  correva, aveva intuito che una svolta innovatrice sarebbe stata molto  malvista dai monarchi europei, una scusa per intervenire.
 Molto si discusse in seguito se una svolta liberale avrebbe potuto giovare a Venezia.
 In quel momento certamente no, perché i governi europei, non certo  favorevoli alle repubbliche, avrebbero preso il pretesto per intervenire. Il Doge lo aveva intuito e lo aveva fatto capire nel suo discorso; e in  seguito il ciclone napoleonico non avrebbe certo risparmiato per così poco
 la fragile Repubblica. E' chiaro che il timore del Doge era rivolto  all'esterno, da lì veniva il pericolo, anche se non poteva immaginare che  invece che da oriente, sarebbe venuto da occidente, con una violenza rivoluzionaria che avrebbe travolto non solo la fragile Repubblica ma  l'intera Europa.
 
 Da menzionare tra gli avvenimenti del suo Dogado il completamento dei  murazzi, iniziato 38 anni prima e ultimato nel 1782, gigantesca diga di  macigni in pietra d'Istria larga 14 metri e lunga circa 13 chilometri, a  difesa dei litorali di Pellestrina e di Sottomarina; una lapide a  Pellestrina così ricorda quest'opera ciclopica per quei tempi: PRINCIPATUS  PAULI RAYNERII - INCLITI - DUCIS - ANNO SALUTIS MDCCLXXIX - AQUARUM CURATORES - FACIUNDUM CURARUNT.
 
 Gli anni del suo Dogado costituirono l'ultimo periodo sereno e brillante per  Venezia, che poteva contare ancora sul suo prestigio al quale il Doge  certamente contribuì. Cito l'impressione di maestosità che ne ricevette, al solo vederlo passare,  uno straniero non certo sprovveduto, il Goethe, quando, durante il suo  soggiorno a Venezia nel settembre del 1786, assistette alla visita che il  Doge fece alla chiesa di Santa Giustina per ringraziare la Santa per la  vittoria di Lepanto, come era tradizione da due secoli. Scrisse Goethe nel suo diario: "spettacolo unico! Quella processione  ricchissima, quelle scene straordinarie, dove risplendono le tuniche dei  magistrati, i cinquanta nobili rivestiti di tuniche violette che  accompagnano il Doge con una signorilità meravigliosa; il Doge stesso,  benché vecchio, con un aspetto di grande imponenza; lo direste il nonno di  questa generazione, tanta è in lui l'affabilità e la gentilezza; per me è  stato uno spettacolo davvero indimenticabile". Da questo brano si può dedurre che il fasto ha sempre una forte carica di suggestione; la  Repubblica sapeva sfruttarlo ed il Doge era il più adatto a rappresentarla.
 
 L' inizio della carriera
 
 Ho cominciato con il Dogado, cioè dall'ultima parte della vita del personaggio. Certamente la più nota e rilevante sotto il profilo storico, ma  forse la meno significativa per conoscere la sua personalità, perché la  carica di Doge lo costringeva entro limiti ben precisi. Il vero Renier, nella sua vivacità ed esuberanza, lo vediamo nella prima  parte, ricchissima di eventi, che riprendo a tratteggiare. La famiglia non  era tra le più antiche del patriziato, essendo stata ammessa al Maggior  Consiglio nel 1381, per benemerenze acquisite nella guerra di Chioggia (era  stata ammessa saltuariamente anche in precedenza).  Nato il 21 novembre 1710 nel palazzo Renier a San Stae, vivacissimo fin da  fanciullo, fa impazzire la madre Elisabetta Morosini, come racconta una  gustosa poesia di Francesco Gritti, che lo definisce "un Atila in erba belo e bon". Si applica con impegno a studi umanistici più severi di quanto
 usassero i patrizi del tempo, giungendo a parlare correntemente il greco ed  il latino; tradusse Omero, Pindaro e Platone in veneziano. Nato fortunato dunque, ma anche questo ci vuole nella vita, fortunato anche quando "tocò la bala d'oro", cioè fu ammesso per sorteggio al Maggior Consiglio prima
 dell'età normale. Nel 1733 sposò Giustina Donà delle Rose, figlia di Leonardo e di una
 Contarini. Da Giustina ebbe tre figli: Andrea, che sposerà Cecilia Manin (sorella dell' ultimo Doge) Leonardo e Lisa.  Fin da giovanissimo si dedicò alla vita politica nella quale, avvalendosi  della sua celebre oratoria, fece rapida carriera. Non c'è stato avvenimento, per un arco di quasi sessant'anni di vita veneziana, nel quale egli non abbia avuto parte, spesso in posizione di primo piano. Sempre
 presente, puntuale, spesso impetuoso: una volta parlò al Maggior Consiglio per cinque ore di seguito, finché quasi svenne. Frequentò tutti gli ambienti, era aperto alle nuove idee pur senza troppo impegnarsi, era amico di tutti, dall'uomo del popolo all'imperatrice Maria  Teresa; percorse rapidamente tutti i gradini che la burocrazia veneziana offriva ai patrizi di successo. Nel 1741, appena trentenne, è Savio alla Scrittura; in seguito ricopre le  cariche di Savio agli Ordini, Revisore alle entrate, Senatore, Provveditore alla sanità, Riformatore allo Studio di Padova, Correttore alla promissione ducale, Cavaliere, Savio grande, Consigliere di Santa Croce, ambasciatore
 straordinario a Roma in occasione dell'elezione del Papa Rezzonico, ambasciatore alla corte di Vienna, Bailo a Costantinopoli, Inquisitore, infine Doge.
 
 Qui sottolineo due importanti vicende politiche che lo coinvolsero nel primo periodo: la questione Aquileiense, e le controversie con la Santa Sede. Oggi può sembrare di scarsa importanza la controversia tra Venezia,  l'Austria e Roma per decidere se il Patriarca di Aquileia potesse continuare
 ad avere giurisdizione sui territori di Stati diversi, Venezia e l'Austria. Ma solo immedesimandosi nell'atmosfera del tempo si può comprendere che erano coinvolti profondi risvolti di politica, di religione, di diritto  feudale. Del resto si disse che questa vicenda fu una delle tante fasi del perenne contrasto fra il mondo latino ed il mondo germanico. In particolare si dedica alle trattative con la Santa Sede per la definizione delle prerogative ecclesiastiche; dopo l'incoronazione del veneziano Papa Clemente XIII, Carlo Rezzonico (1758), alla quale assiste come inviato della Repubblica, la spinosa questione trova un accomodamento sulla base delle sue proposte. Polo Renier fu tenace difensore dei diritti della Repubblica, cioè si allineò con gli anti-papisti, come in altro caso analogo successivo. Fu
 talvolta tra i perdenti, ma con i suoi lunghissimi discorsi al Senato, ora suadenti ora impetuosi, e gli altrettanto lunghi colloqui riservati, rimaneva sempre al centro dell' attenzione, ed aumentava la sua fama. Era dotato di grande capacità di manovra per cui, pur dopo aspre contese, il suo intuito gli suggeriva soluzioni onorevoli ed accettabili. Spesso non gli furono risparmiate critiche ed accuse da parte dei patrizi intransigenti ed insensibili all' ambiente che si evolveva; alcuni lo definirono orgoglioso, autoritario e battagliero, altri invece annoverarono questa caratteristica tra le sue doti. La citata Marcellino scrive: "dinanzi al nuovo si ritrae unicamente chi non ha fede in sé e forza di
 rinnovarsi, mentre il penultimo Doge di Venezia ne aveva: ne aveva per lo meno nella quantità che sarebbe stata necessaria e sufficiente alla Repubblica per morire con dignità, in piedi e lottando, sopraffatta da avvenimenti più grandi di lei.".
 
 Un'altra tappa importante della sua carriera fu nel 1761 la cosiddetta congiura Querini. Angelo Querini, spirito acuto, vivace, si era messo in contrasto con gli Inquisitori di Stato, cercando di applicare, quale Avogador de Comun, idee riformiste, ma in modo originale: essendo profondo
 conoscitore delle antiche e complesse leggi della Repubblica, cercava di farle nuovamente applicare in quanto più liberali. Si proponeva cioè di opporsi o mitigare i poteri sempre più autoritari che
 qualche organismo aveva assunto: ad esempio il Consiglio dei Dieci e gli Inquisitori, a scapito di altri, ad esempio l'Avogaria, che in origine era più rappresentativa delle classi popolari. Era in sostanza un' innovazione che puntava a tornare all'antico, ed è da rimarcare che il popolo, in questo caso come in altri, rimaneva sostanzialmente indifferente a queste manovre che avvenivano tra i patrizi: per lui la Repubblica andava bene così.
 E' noto come la costituzione veneziana si trasformava lentamente, in forma pragmatica, aggiungendo secondo le esigenze nuovi organi e nuove funzioni. Il sistema, divenuto con il tempo molto complesso, era utile per creare equilibrio tra i vari organismi statali e rotazione di persone, ma creava anche possibilità di frizione. Paolo Renier, sempre presente nella vita politica, non poteva non partecipare a questa vicenda; si schiera con Querini che era suo amico e del quale condivideva le idee liberaleggianti,
 anche a rischio di mettersi in contrasto con il potente Consiglio dei X; in tale occasione egli tiene la parola per ben cinque ore davanti al Maggior Consiglio; difende con grande foga i suoi ideali di rinnovamento, ma non è ancora passato attraverso l'esperienza diplomatica, la quale gli farà capire
 quanto sia precario l'equilibrio della Repubblica in sede internazionale. La conclusione è nota, Angelo Querini viene esiliato, e Polo riesce a cavarsela e continua a battersi contro la maggioranza conservatrice, a denunciare i mali che affliggono la Repubblica. Anche questa volta è tra i perdenti ma ciò non significa che egli non aumenti la sua fama e la sua autorità. Riferisce una cronaca: ".sia fortuna o malia che lo difenda, ognora esce illeso dai volontari perigli".
 Cioè si caccia nei pasticci, ma riesce sempre a cavarsela; aumenta però nei suoi colleghi la diffidenza per il suo eccessivo attivismo, cresce l'invidia: fatto sta che, forse per levarselo d' attorno, nel 1764 viene nominato ambasciatore a Vienna, carica molto delicata e ambita. Da notare che, accanto alla sua intensa attività politica, egli deve curare il patrimonio della famiglia, le case di Venezia, le valli lagunari, i poderi e le ville in campagna, essendo il maggiore dei fratelli.
 Nell'archivio di famiglia, che inizia con il '300, c'è un documento firmato da tutti i fratelli, con il quale egli, dovendo partire per Vienna, delega uno di loro ad amministrare i beni della famiglia.
 
 Ambasciatore a Vienna.

 L'uscita dalle ristrette beghe lagunari costituisce per Polo un'improvvisa apertura verso orizzonti politici e culturali di maggiore respiro, ed egli vi si immerge con rinnovato slancio. Comincia qui la svolta concettuale che poi gli attirerà l'accusa di aver tradito gli ideali riformisti. Il fatto è che a Vienna si rende conto di quanto potenti siano gli stati europei e quanto modesta Venezia sul piano militare. In particolare gli fa impressione l'esercito austriaco. Nei 229 dispacci che manda al Senato c'è
 tutta la politica europea di quegli anni, e spesso affiora il timore, che per lui fu un incubo per tutta la vita, sulle possibilità di sopravvivenza della Repubblica Veneta; sono altrettanti appelli, sempre più angosciati, rivolti al Senato per scuoterlo dalla sua inerzia. Nello stile classicheggiante, nel suo tono autorevole e spesso altezzoso, tratta i più disparati argomenti, c'è la conferma di quella capacità di
 comprendere le situazioni più complesse, quell'intuito da tutti riconosciuto quale la sua più alta qualità, come politico e come uomo. Egli intuisce la crisi in atto, la precarietà della situazione di Venezia, praticamente circondata dall'Austria, ma teme anche la Francia, della quale scrive:  ".assai perturbata all'interno, non è improbabile che azzardi dei pericoli esterni per risanarsi".
 E' una chiara previsione degli avvenimenti successivi, della rivoluzione francese; di qui il consiglio che rivolge pressante alla Repubblica: non fidarsi del rispetto degli altri, prepararsi, anche riarmare, anche allearsi all'Austria in lega difensiva; così non può durare a lungo. In questo periodo va formandosi quella linea politica, detta appunto reniera, che è la fusione tra la sua esperienza e il suo carattere: l'abbandono della rassegnata neutralità e il ritorno sulla scena europea, per prepararsi ad eventi, per ora imprecisabili, ma certo gravi.
 I suoi messaggi sono prodighi di incitamenti: "Fortunati quei principi che sono pronti con forze militari a non lasciarsi offendere". "Non vi è maggiore sicurezza che quella di temere di continuo le violenze altrui". "In questo secolo altro non possono fare i principi che mostrare la forza
 per non cadere nel disprezzo e nella servitù". "Gravissimo errore è quello di fidarsi dei vicini".
 Tutto inutile, queste sue ammonizioni preveggenti gli procurano solo censure e addirittura sospetti da parte dei suoi miopi contemporanei, che preferiscono vivere alla giornata: alcuni suoi messaggi non vengono neanche letti in Senato perché creano fastidio. Anche per quanto riguarda l'aspetto organizzativo, il confronto tra gli efficaci metodi di governo dell'impero e quelli dell'amata Repubblica, non più adeguati ai tempi perché antiquati e troppo frammentari, aumentano certamente le sue preoccupazioni.
 Rimase colpito ad esempio dal fatto che l'imperatrice convocava due volte la settimana i suoi ministri, i quali dovevano rendere conto del loro operato e si sentivano quindi pungolati, e lei dava le direttive.
 Forse pensava alle lungaggini del Maggior Consiglio e all'impotenza del Doge, e qualche episodio fa pensare che abbia auspicato un vigoroso cambiamento, nel senso di rendere il potere della Repubblica più snello ed autorevole, per mettersi alla pari con gli altri stati europei. Ma ormai la Repubblica era così, nessuno aveva la forza per cambiarla, e questo stato di impotenza lo addolora. Il periodo passato alla corte di Vienna è comunque ricco di soddisfazioni. Emerge fra gli altri ambasciatori puntando sulla messa in scena, sull' apparato fastoso dell'ambasceria, che gli inghiotte parte del suo non opulento patrimonio; punta sulla sua innata arte di piacere, di conversare, sulla sua cultura, sull'arguto spirito veneziano, nel quale i patrizi sono maestri.
 Un suo contemporaneo lo definisce "lusinghevole sirena" e l'ambasciatore austriaco non manca addirittura di mettere in guardia il suo governo che la sua eloquenza e il suo fascino possono essere ingannevoli. Ottiene aperto successo, mondano e politico, perché la corte di Vienna è l'ambiente ideale nel quale può mettere a frutto le sue doti, esercitare la sua ambizione ed insieme giovare alla Repubblica aumentandone il prestigio. Il figlio di Maria Teresa, Giuseppe II, poi imperatore, lo chiama
 pubblicamente suo amico, avevano in comune idee in senso liberale. Si ritroveranno in un successivo incontro a Venezia. Si riporta questo episodio che avrà un seguito. Era a Vienna in quel  periodo Giacomo Casanova, che aveva ricevuto un ordine di espulsione per aver praticato giochi d'azzardo. Si rivolse all'ambasciatore il quale, mentre era a pranzo con il ministro principe Kaunitz, riuscì a far revocare l'espulsione, ricorrendo alla sua persuasiva diplomazia. Al suo ritorno non riposa; lancia una proposta di costituire una lega almeno difensiva con l'Austria, e in tal senso parla per due ore e mezzo in Senato; ma non riesce a scuoterlo dalla scelta politica di stretta neutralità: neutralità sempre e con tutti. E' noto quanto poco valore abbiano i "se" nella storia, ma forse, se lo avessero ascoltato, un blocco austro-veneto, che pure certamente avrebbe infeudato ancor più Venezia all'Austria, avrebbe potuto però creare un solido baluardo all'ondata napoleonica.
 
  Bailo a Costantinopoli.

 Il suo rientro non dura a lungo: nel 1769 viene nominato Bailo a Costantinopoli. La carica di "Bajlus" era stata istituita nel 1265 per sottolineare il rilievo di questo ambasciatore, in relazione all'importanza
 politica, strategica, commerciale di Costantinopoli, capitale dell' impero ottomano. Aveva la possibilità, frequentando l'ambiente della "Sublime Porta", centro di politica e di intrighi, di ottenere notizie preziose, e di svolgere un'intensa attività diplomatica. In alcune circostanze veniva consultato
 dallo stesso Visir. Esercitava ampi poteri nei confronti dei molti Veneziani residenti o in transito, sia in materia giudiziaria, sia commerciale, ed era circondato da una piccola corte. Sintomatica della sua propensione di cercare sempre di mettersi in luce è la lettera che invia al Senato dalla stessa nave che lo porta in oriente: ".li publici comandi furono, come lo saranno sempre, da me rispettati e ciecamente obbediti; la mia persona, per l'intero corso della sua vita tutta si dedicò al servizio dell'amata patria nei santi e molteplici interni ed esterni servizi.". Nell'avvicinarsi alla costa turca, la sua nave viene presa a cannonate perché scambiata per una nave russa; poi, riconosciuto, viene fatto oggetto di festose accoglienze con tamburi, spari, cortei, ed un messaggio del Sultano che si conserva in originale nell'Archivio di Stato, pieno di complimenti.
 Lo aspetta un ambiente infido e tipicamente orientale, ben diverso da quello aulico di Vienna. Ma deve accettarlo per svolgere la sua missione, e si impegna con energia, perché le difficoltà gli sono congeniali. Comincia il  primo giorno ad avere uno scontro con l'ambasciatore di Danimarca, che
 pretendeva di avere la precedenza su di lui: su di lui, Bailo della Serenissima! E naturalmente la spunta. In una lettera privata ad un amico esprime la sua forte avversione nei riguardi degli usi e costumi dei Turchi, che erano del tutto diversi dai suoi principi morali. Quando trattava con loro doveva naturalmente fare attenzione a non esprimere alcun giudizio; e lui, abituato in patria alla
 libertà di parola ed anche di scontro, si sentiva a disagio, compresso nella sua personalità. Il momento era molto delicato per Venezia. Era in corso una guerra tra la Turchia e la Russia, scatenata all'ambiziosa Caterina II, una pagina di storia importante perché segnò il declino della potenza turca, e la presenza russa nel Mediterraneo.
 La potenza turca non era più quella di un tempo: la flotta era in piena decadenza, l'artiglieria che doveva difendere i Dardanelli era tenuta in efficienza da agenti francesi, la capitale correva il rischio di essere conquistata. L'impero ottomano aveva raggiunto nel momento del suo massimo splendore una
 estensione enorme, ed ora sembrava una preda ferita alla quale tutti cercavano di strappare un pezzo: l'Austria mirava ai Balcani, la Russia alle regioni a nord del mar Nero, i Greci all'indipendenza, anche la Francia e la Spagna tramavano per ricavare qualche vantaggio; Venezia si accontentava di difendere le sue posizioni e i suoi traffici. La flotta russa con un'impresa molto ardita si era trasferita dal Baltico
 all'Egeo per attaccare direttamente Costantinopoli. Venezia possedeva molte isole nell'Egeo ed una flotta sia militare sia commerciale ancora efficiente, per cui rischiava di trovarsi coinvolta in una guerra che in ogni caso le avrebbe procurato solo danni. Di qui gli sforzi della diplomazia veneziana di mantenersi in una difficile neutralità. I Turchi infatti a stento potevano credere che le navi russe, prive di basi, non si appoggiassero a quelle veneziane, e viceversa i Russi sospettavano che i Veneziani lavorassero a vantaggio dei Turchi. Per complicare le cose, la nuova amicizia tra Greci e Russi, rinsaldata dalla comune religione ortodossa, aveva rinfocolato le aspirazioni all'indipendenza delle isole greche comprese nel dominio veneziano, creando difficoltà a Venezia. Il nuovo Bailo quindi giunge in un momento di grande turbolenza. Prende contatto con tutti gli ambasciatori, con i ministri turchi e con il Visir, che gli esprime la sua simpatia; tratta con la Zarina per istituire una
 rappresentanza russa a Venezia e per regolare i commerci delle due nazioni rispettivamente nel mar Nero e nell'Adriatico; cerca di riportare la pace fra i due contendenti. Le qualità di Paolo Renier sono le più adatte per curare gli interessi di Venezia; sono 118 i dispacci che in quattro anni spedisce al Senato, e dimostrano la solerzia con la quale assolve il delicato incarico. Costituiscono la fonte principale delle notizie di vario genere, alla quale attingono gli storici che trattano questo periodo. Particolarmente
 toccante è il messaggio nel quale descrive le sue sofferenze per un'influenza che lo aveva colpito, assieme a gran parte della popolazione locale.
 Avanza proposte ardite, che non trovano l'approvazione del sospettoso Senato, che conosce il suo dinamismo. Ad esempio, quando viene a sapere che esiste la possibilità che l'Austria si allei con la Russia, propone che Venezia si unisca all'alleanza, per dare un colpo decisivo all'antico nemico
 turco; o almeno ipotizza che in questa occasione la Repubblica si avvicini all'Austria, facendo pesare la sua neutralità. ".Vienna fa movimento d'armi, e questo sarebbe il momento buono., posto dunque che una nuova guerra si accenda fra Casa d'Austria e la Porta, Vostre Eccellenze vogliano approfittare dalla combinazione almeno negoziando quella neutralità che osservare volessero.dubitare non posso che.potessero venire con una ben condotta negoziazione.delle cose utilissime." E' evidente che continua ad accarezzare quel progetto di avvicinamento all'Austria che aveva abbozzato a Vienna. La sua concezione di fondo era questa: l'Austria è una nazione forte, molto vicina; ci conviene andare
 d'accordo, sarà un alleato scomodo ma è meglio così piuttosto che un giorno o l'altro, visti i rapporti di forza disastrosi nei nostri riguardi, non ci attacchi all' improvviso. Ma il Senato è irremovibile ed il Bailo deve usare tutta la forza di persuasione per convincere i sospettosissimi ministri turchi della buona fede di Venezia.
 Raggiunge i due obiettivi di fondo: mantenere la neutralità di Venezia, come chiesto dal Senato, e tutelare le navi veneziane che navigano tra i due contendenti. Si cita questo episodio: la flotta russa attacca un porto turco dove sostano anche navi veneziane; quando queste esibiscono lo stendardo di San Marco, i Russi sospendono le ostilità fino a quando i Veneziani non si sono allontanati. Quando nel '74 la guerra ha termine, riprende per Venezia l'esigenza di riattivare le sue attività commerciali nella zona. Il Bailo riesce a far entrare navi veneziane nel mar Nero, non essendogli sfuggita l'importanza di
 attivare rapporti con l'emergente mercato russo. Infine compie quell'impresa che è il suo capolavoro diplomatico. Costantinopoli era in preda alla carestia, urgevano rifornimenti; approfittando con rontezza di un momentaneo offuscamento della usuale  influenza francese, riesce ad ottenere per le navi veneziane l'appalto dei relativi approvvigionamenti, con grande vantaggio per il languente commercio.
 I suoi critici insinuarono che anch'egli ne abbia tratto dei vantaggi, dimenticando che al Bailo spettavano dei diritti doganali sulle attività commerciali svolte nel suo ambito. La sua popolarità raggiunse il massimo ed i suoi rapporti con il Sultano stesso diventarono più stretti. Quando 48
 navi cariche di grano egiziano, grazie al suo interessamento, entrano nel porto della città affamata, si levano alte acclamazioni per Venezia. Erano lontani i tempi di Lepanto, ed ha qualcosa di patetico il fatto che questi due antichi nemici abbiano trovato un momento di collaborazione proprio quando erano entrambi al tramonto. I suoi dispacci non nascondono il suo compiacimento ed anche il Senato, che
 di solito era stato piuttosto freddo con lui, non risparmia gli elogi: "il Senato, che ritrae continuati contrassegni del zelo che vi distingue nell' esercizio del ministero da voi lodevolmente sostenuto, con sensi di piena laude e gradimento, non dubitando della vostra ben nota diligenza". In occasione dell' assunzione al trono del nuovo Sultano, dovendosi mandare un ambasciatore straordinario che rappresentasse la Serenissima, viene incaricato lo stesso Bailo, con queste parole: "si determina di commettere a voi questo incarico, nella fiducia che per le doti e talenti che vi adornano, e per i molti saggi di virtù e prudenza che ritratti si sono in tutte le occasioni degli impegni interni ed esterni che avete con  particolare merito sostenuto, saprete supplirvi nel più aggiustato modo alle ufficialità dell'occasione". Analogo messaggio viene inviato al Sultano Habdul Hamid dopo le congratulazioni ed auguri di rito. Durante il bailaggio egli, come a Vienna, volle restaurare a sue spese la sede dell'ambasciata e vi pose una lapide con il suo nome e stemma. Questo episodio mette in rilievo un aspetto della sua personalità, rilevabile anche in altri casi: quando faceva qualcosa di egregio, ci teneva a farlo sapere.
 L'ambasciata veneziana è diventata il consolato italiano a Istanbul e la lapide è visibile nell'annesso edificio denominato "residenza estiva", che può essere visitato a richiesta. Il periodo di soggiorno a Costantinopoli è forse quello delle maggiori soddisfazioni. La frequentazione della "Sublime Porta", i contatti con  altissimi personaggi come il Sultano ed il Visir, la supremazia sui colleghi
 ambasciatori, la piccola corte di Veneziani attorno al Bailo, la possibilità di gestire attività commerciali, il consenso della popolazione, corrispondono perfettamente alla sue aspirazioni.
 Al momento del rientro, il Bailo riceve dal governo turco grandi riconoscimenti: gli vengono donati un cavallo riccamente bardato e una pelliccia preziosa.
 Dopo essere stato, per otto anni, ambasciatore presso due fra le più importanti capitali europee, quelle dell'impero asburgico e dell'impero ottomano, segue una sosta relativa, perché dapprima ricopre la carica di Inquisitore, poi il 14 gennaio 1779 viene eletto Doge, ottenendo la totalità, meno uno (il fratello) dei voti dell'ultima commissione dei 41. Giacomo Casanova approfitta della sua elezione: forse per sdebitarsi del favore ricevuto a Vienna, ma più sicuramente per entrare nelle grazie dei
 potenti, pubblica un libretto che è una forte critica di Voltaire, e aggiunge una dedica che è un capolavoro di adulazione del nuovo Doge, per cui è il caso di riportarne qualche brano:
 "Al Serenissimo Principe Polo Renier - Doge di Venezia: questo picciolo libro, che con riverenza maggiore del mio ardimento supplico vostra Serenità di benignamente accogliere, uscì recente dalla mia rozza penna, mi determinai di procurargli l'alta sorte di trattenere per qualche momento il
 sublime ingegno di vostra Serenità, quella bella e luminosa mente, ch'ebbi campo di scoprire tanto ricolma di dottrine, e di acutissimo discernimento, quanto guardinga a distribuire lodi. Sono col più rispettoso, e col più profondo ossequio, Serenissimo Principe, di vostra Serenità, l'umilissimo,
 devotissimo, ossequiosissimo, infimo servo e suddito Giacomo Casanova".

 

ASCENDENZA DEL DOGE

(da "la Famiglia Renier", dell'Ing. Paolo Renier, Venezia 1975)

 

DISCENDENZA DEL DOGE